Le dimissioni di Zingaretti ci hanno preso alla sprovvista. Non ce le aspettavamo anche se qualche “rumors” in giro si sentiva. La lotta fra correnti, eccessiva, sarebbe la causa. Viene da dubitare. Non perchè ultimamente il PD non abbia messo in evidenza una lotta cruenta fra capicorrente., spesso ahimè priva di contenuto politico evidente, trasparente e partecipato almeno da parte dei militanti se non degli elettori, ma perché purtroppo questo fatto è da tempo, e non da ora, un elemento caratterizzante la sinistra in generale e questo partito di sinistra. Intendiamoci, se la sinistra è libertà, passione e partecipazione non c’è nulla di male se un partito di massa si riconosce e si organizza in correnti. I partiti ultraidentitari e diretti da un solo capo infallibile non fanno il caso della sinistra nell’attuale fase politica e culturale dell’occidente democratico di cui l’Italia è parte.
Ma il problema sorge quando le correnti diventano solo luoghi di spartizione di potere e perdono quasi ogni contatto con i problemi del paese e quindi anche con la normale, e salutare, dialettica fra aree e sensibilità diverse nel dare risposta e talvolta anche soluzione a quei problemi. E il PD in questa fase purtroppo non ha dato l’immagine di un Partito che discute, anche animatamente, ma piuttosto di un Partito in mano a gruppi di potere che hanno cercato in qualsiasi occasione di Governo che si è presentata di accedere ai “posti di comando” con i propri aderenti. Spesso senza alcuna valutazione di merito e di compatibilità con i ruoli ricoperti. E questo ha certamente indebolito la caratura politica del Partito in generale di fronte all’opinione pubblica e ha indebolito senz’altro la qualità della presenza nei ruoli istituzionali sia in termini di autorevolezza sia in termini di qualità della risposta politica e di merito sui temi.
Ma questo quadro non sembra, pur se grave e critico, essere la causa delle dimissioni. Zingaretti è un “navigatore di lungo corso” e certamente sarebbe stato in grado di reggere la nave pur in mezzo alla tempesta.
E allora propendiamo verso l’ipotesi che più che le correnti ha potuto l’insuccesso. Cioè Zingaretti si è dimesso perché l’impianto strategico che ha elaborato in quest’ultimo anno grazie anche al supporto “teorico” del consigliere Bettini è miseramente fallito. Ed è fallito su due punti portanti.
Il primo è la caduta del Governo Conte che è avvenuta all’insegna di un PD che ha cercato di sostenere in maniera rigida e senza la presenza di “Piani B” che c’era una sola strada: o Conte o le elezioni. Una posizione assurda immediatamente abbandonata non appena si è presentata la possibilità, necessità, di un Governo del presidente con Draghi primo ministro, ma che non ha consentito al PD di entrare e stare nel Governo Draghi con il ruolo e con la visibilità che avrebbe potuto e che avrebbe dovuto ricoprire. La serie dei ministri e dei sottosegretari e la loro collocazione poco strategica nel nuovo Governo dice tutto di questa battuta d’arresto.
Il secondo segue la scelta, immediata e senza discussioni con il PD, di Conte come capo del Movimento 5Stelle riveduto, corretto e rilanciato su un’area politica che sembra altamente concorrente con l’area politica coperta dal PD. Il Conte federatore del centrosinistra è diventato in un batter di baleno il più forte e credibile competitore politico del PD. E, a stare dietro ai sondaggi, con un certo successo elettorale verso quegli elettori del PD convinti da Zingaretti a guardare a Conte come il “leader maximo”. Ci hanno creduto, anche troppo.
Il PD che si allea col M5s e con Leu per costruire la nuova sinistra non c’è più. Nel senso che quanto più caldeggia questa ipotesi, perdente comunque ma almeno capace di aggregare una certa area di sinistra in Italia, quanto più vede franare il proprio consenso verso l’azionista di maggioranza e verso un leader alternativo creato e sostenuto proprio dal PD.
E allora che fare prima di autosciogliersi per entrare nelle fila del nuovo soggetto politico di Conte? Di un partito di cui non si conoscono né i connotati di riferimento ideale (populista, ma poco, liberale e di sinistra?) né quelli di riferimento programmatico (dal cashback alla nazionalizzazione delle imprese in crisi) ma di cui si conosce esclusivamente la “bonarietà” del leader. Che piace alla gente.
Le dimissioni sono lì a dimostrare quella difficoltà. E a dire a elettori e militanti che il PD è oramai in un “cul de sac”. Da cui non si esce facilmente con la riproposizione di riti vecchi e di vecchi tatticismi. Non credo che l’operazione, che pur molti riformisti caldeggerebbero, delle primarie per un nuovo segretario in grado di lanciare il nuovo astro nascente Bonaccini avrebbero “in sé” la capacità taumaturgica di rilanciare il PD. Questo perché anche Bonaccini si troverebbe dentro il PD tanti vedovi di Conte, troverebbe a suo supporto correnti riformiste abituate a giocare questa parola solo come riferimento di potere e oramai non più in grado di aprire davvero nuove strade riformiste. Insomma il Partito si è deteriorato. E non serve solo un nuovo capo. Ma serve un nuovo processo costituente. Che si fondi su tre cose.
Il legame con i territori e con i leader locali legati alle esperienze reali. La fine del processo di cooptazioe come unico processo di affermazione dentro al partito. Cioè valutare di più le esperienze fatte davvero e non le amicizie con i capi corrente. Ed infine il recupero reale, non formale, della partecipazione politica che può essere favorita anche dalle innovazioni tecnologiche che non vanno demonizzate ma vanno governate.
Ci vuole un processo che richiede tempo, impegno e decantazione. Guai a pensare ad un “instant new leader” che non sarebbe in grado di risolvere i problemi di un partito come il PD, nato male e cresciuto peggio.
Riccardo Catola
Bravissimo. Direi perfetto. Serve davvero un processo costituente che porti il PD, o come si chiamerà, in un’area di vera sinistra democratica moderna, lasciando i miti paleo-sinistrorsi ai mammalucchi populisi di Conte e LeU. A quelli con la morale infiammata e ingrossata da nostalgie, utopie e correttezze politiche d’importazione.
Paolo savini
Per uscire da una certa vaghezza sarebbe utile fare a noi poveri comuni, non addentro alle stanze, i nomi dei vari capicorrente e indicare la loro linea politica. Tra gli errori di Zingaretti aggiungerei la mancata riforma elettorale conseguente alla riduzione dei parlamentari, maggioritario o proporzionale. Mancano due anni a nuove elezioni c’è tutto il tempo per veder fallire Conte ai cinque stelle, calma e gesso
Guido Guastalla
Sono in gran parte d’accordo. Cosa vuol essere il PD da grande? un partito riformista di centro sinistra o un partito di sinistra, che cerca di guardare al centro, sembra con scarso successo nato PCI ( ma anche qui quale PCI quello di Amendola, di Ingrao, Togliatti. o dopo di Occhetto, D’Alema. Veltroni? Cioè da sinistra vrso il centro o dal centro verso sinistra?) . L’unico tentativo di lungo respiro era quello di Renzi che voleva mettere fra parentesi la tradizione comunista ( che nessuno dei comunisti ha voluto rivedere in profondità ), col risultato che la base è rimasta a mezz’aria. Forse ora è tardi. ma……
ps: prima ci fu il tentativo di Amendola, Napolitano, Chiaromonte e poi dei miglioristi milanesi ( Cervetti, Corbani, etc. ), considerati pericolosi per chi voleva navigare nella acque tranquille della palude iitaliana.
Elisabetta Briano
Zingaretti ha fatto bene a scoprire il coperchio. Ha fatto un’operazione di verità utile al Pd e al paese, denunciando che un partito fatto di nomenclature distaccate dal paese e tenute insieme dalla fetta di torta a disposizione. La retorica sugli errori non sta in piedi; poichè tutte le scelte fatte anche obtorto collo andavano fatte, le avrebbe fatte chiunque e imputarle a Zingaretti è una scemenza, che oltretutto le ha fatte per forza di cose.Il problema è che la fetta di torta con Draghi si è ristretta e troppi appetiti son rimasti insoddisfatti.