Le grandi battaglie dei socialdemocratici sono diventate un’eredità comune a tutte le nostre società.
Naturalmente, sono oggetto di dibattito, riforma e conflitto. Ma il consenso di base sulla protezione sociale o sui diritti dei lavoratori è generalizzato.
Ma oggi i socialdemocratici sono impercettibili: non abbastanza in prima linea nella battaglia per un’Europa politica o federale, in ritardo rispetto agli ecologisti sulle nuove questioni sociali e con la tentazione di tornare a una “vera sinistra”.
Per quanto sorprendente possa sembrare, abbiamo visto alcuni socialdemocratici entusiasti di Jeremy Corbyn nel 2017. Sappiamo com’è finita.
Potremmo spingerci a dire che la socialdemocrazia, almeno nella sua accezione novecentesca, è finita, vittima del suo successo e che un nuovo confine, un nuovo terreno andrebbe coltivato: quello del riformismo a tutto campo, quello dell’equilibrio fra i diritti e i doveri, quello della partecipazione attiva e consapevole, quello della competenza, del merito, della parità di genere, quello del lavoro in tutte le sue accezioni, di chi lo produce e di chi ne trae il giusto compenso, quello dell’ambiente interpretato nel corretto equilibrio fra protezione e sviluppo, quello della cessione di pezzi di sovranità a favore di un sistema europeo a trazione anteriore.
Fin dalla fine del XX secolo queste tematiche hanno indotto elementi di tensione e hanno prodotto nella politica dinamiche che hanno avuto ripercussioni anche nel campo delle forze di ispirazione autenticamente europeista, riformista, liberale, socialista, popolare e democratica.
Generando a volte una crisi che ha riguardato soprattutto il lato dell’offerta politica, non quello della domanda.
La domanda c’è, ma gli elettori, quelli che non si rifugiano spaesati nell’astensione, sono al momento divisi tra diverse forze politiche tutte di ispirazione liberaldemocratica, radicalmente riformista, europeista: Azione, Italia Viva, Più Europa, una parte nel Partito democratico e anche in Forza Italia; e tutte si candidano a rappresentare quelle istanze.
Fuori dai partiti poi molte sono le realtà, le associazioni che operano con questi medesimi obiettivi, raccogliendo chi non trova risposte nei partiti stessi.
L’avvento del governo Draghi può favorire la ricomposizione di questo “fronte” perché dal lato della policy può favorire la realizzazione di quelle riforme strutturali senza le quali il Recovery plan italiano resta un elenco di buoni propositi, dal lato delle politics ha ricomposto in un unico campo tutte le forze che si erano divise sul sostegno o meno al Conte II.
Può così prendere forma un progetto politico di ampio respiro nel quale collocare le risorse straordinarie dell’Unione europea e la struttura della governance preposta a gestire l’esecuzione dei piani previsti, ma soprattutto finalizzarle alla rinascita e alla ricostruzione del Paese dopo un cupo decennio di crisi economiche e pandemiche, dopo un trentennio di deficit galoppante e di crescita stagnante.
Un progetto politico che assuma la bussola del “debito buono” (quello fatto di investimenti e non di sussidi), lanciata un anno fa dallo stesso presidente del consiglio per investire su infrastrutture, istruzione, sanità, economia circolare, sostenibilità ambientale, transizione digitale, pubblica amministrazione, giustizia, giovani, cultura
Il governo Draghi nel tragitto riformatore che di sicuro non sarà completato nei dieci mesi che ci separano dall’elezione del Presidente della Repubblica porta con sé la conseguenza politica che lo sbocco naturale non può che essere Mario Draghi medesimo.
I liberaldemocratici, i riformisti e i repubblicani, gli europeisti ma anche Enrico Letta se non vuole riconsegnare il PD ai populisti di varia ispirazione o inseguire progetti unitari già falliti – quello con il M5S è politicamente fallimentare – dovrebbero tenere ben saldi due soli principi non negoziabili, fondamentali, indiscutibili.
Il primo principio non negoziabile è che Draghi dovrà restare in carica fino alla fine della legislatura, nel 2023; il secondo è quello di indicare Draghi come premier anche dopo le elezioni del 2023.
(il resto dell’articolo è possibile leggerlo su www.luminosigiorni.it)
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