Quando è arrivato il tempo di prendere la decisione di partire, non ci sentivamo ancora pronti. In realtà ancora oggi non riesco a rendermi conto del fatto che la casa dove ho passato tutta la vita potrebbe non esistere più. Guardo le foto delle abitazioni distrutte e ricordo che ogni giorno ci passavo vicino per le sbrigare faccende giornaliere, e anche quella quotidianità oggi non esiste più. Ogni giorno provo a digitare i numeri di telefono dei miei vicini, quelli che potrebbero essere in città per chiedere come stanno, se ancora esiste il nostro quartiere, il nostro condominio e le nostre case.
All’inizio della guerra le battaglie non si combatteva ancora nelle città, vivevamo lì come si poteva, concentrati sulla vita di tutti i giorni. Inizialmente non pensavamo di partire, anche perché ho mia madre che e viva a 20 km da casa mia e ha 90 anni e sarebbe stato difficile a portarla con noi. Una volta tornando da casa sua non avrei mai potuto mai immaginare che entro un’ora tutta la strada sarebbe stata piena di mine per i carri armati che erano scoperte per terra. Da poco l’esercito russo aveva preso posizione vicino alla città ed io ero rimasto separato da mia madre, senza nessuna possibilità di farle avere le cose di cui aveva assolutamente bisogno come, ad esempio, le medicine. Rimaneva solo la speranza che si risolvesse in poco tempo, come era già successo nel 2014.
Dopo qualche giorno eravamo senza acqua, luce e gas, ma rimaneva sempre la speranza: era già successo. Poi l’artiglieria russa ha iniziato a colpire le scuole e le abitazioni civili. Dopo qualche giorno ho perso anche la connessione con mia madre. Siamo stati allertati perché eravamo minacciati dall’artiglieria e ci hanno raccomandato di stare nelle zone più interne della casa, così nel caso di un bombardamento ci avremmo avuto un secondo muro a proteggerci dai detriti. È difficile trasmettere la sensazione di paura quando esplodono i proiettili vicino casa tua e solo dopo inizi a capire se sparano da un mortaio, da una obice oppure da un aereo. Solo quando sentivamo gli spari provenienti dall’esercito ucraino potevamo metterci a letto e dormire.
Il nemico cercava di colpire le infrastrutture con per rendere impossibile la vita nelle città: i supermercati, le unità di distribuzione dell’energia, le stazioni dell’acquedotto. Di conseguenza le persone che facevano la coda per acquistare generi alimentari diventavano un bersaglio per quei proiettili.
All’inizio della guerra i bombardamenti avevano danneggiato gli impianti della centrale termica e le abitazioni erano rimaste senza riscaldamento. Se le esplosioni facevano saltare le finestre la casa si raffreddava in poche ore e al mattino l’acqua nelle pentole era diventata ghiaccio.
Ma, come abbiamo constatato, la prova più grande è stata la mancanza dell’energia elettrica e la disconnessione da internet e dagli altri mezzi di comunicazione: un vuoto completo di disinformazione, un vuoto completo nello spazio.
La mattina del 12 marzo è diventato chiaro, che l’evacuazione sarebbe stata presto impossibile. Le vie per uscire dalla città erano sotto tiro o stavano per diventarlo presto, aspettare un’altra ora significava rischiare di perdere ogni occasione per scappare. Quindi probabilmente, la consapevolezza della mancanza di un’alternativa mi ha fatto salire in macchina e partire immediatamente. Senza vestiti, senza carte di pagamento, senza quella che doveva essere una “valigia dell’emergenza”. La prima mezz’ora di viaggio è stata più difficile: io e la mia moglie abbiamo guidato non sapendo se la strada era libera e soprattutto se saremmo riusciti a lasciare la città vivi. Tutta di un fiato e rapidamente.
Più tardi ci siamo trovati in “un altro mondo”: silenzio, boschi, natura, come se non fossimo molto vicino all’orrore in cui abbiamo vissuto negli ultimi giorni. Non credevo a un’immagine del genere, non si capiva come potesse essere successo. Rimanevano ancora due giorni di strada verso ovest e ho altro da raccontare. Ci siamo fermati due notte da gente che non conoscevamo. È stato imbarazzante e strano come le persone che vedi per la prima volta nella tua vita ti accettano con tanta cura, assolutamente senza esitazione, fornendo non solo un riparo, ma pieno sostegno, comprensione, ciò che è necessario per facilitare il cammino.
Siamo stati accolti così tanto calorosamente all’estero. Il nostro paese è unito, siamo pronti a darci una mano. Il mondo deve ancora riunirsi e credo che accadrà, perché non c’è altra alternativa di fronte ad un nemico che porta solo la morte. Siamo stati costretti a lasciare momentaneamente il paese: io, mia figlia e due miei nipotini. Severodonetsk è costantemente sotto il fuoco, la distruzione è terribile, ci sono molte vittime sfortunatamente ce ne saranno insopportabilmente ancora. Chi è rimasto da tre mesi vive nei seminterrati, in città mancano medicine e cibo. Gli occupanti russi hanno distrutto tutti i depositi alimentari e l’unico modo per ottenere il minimo necessario è attraverso gli aiuti umanitari che periodicamente arrivano in città.
Oggi il principale teatro delle operazioni è nell’est dell’Ucraina. Recentemente nella città Rubizhne, a 15 chilometri da casa mia, un proiettile degli occupanti russi ha colpito un serbatoio con acido nitrico e ha provocato la fuoriuscita di una grande nube tossica.
In quei giorni abbiamo saputo che agli invasori era stato ordinato di “ridurre al suolo” Severodonetsk. La mia città, la mia casa… Credo che le forze armate che difendono l’Ucraina non lo permetteranno. È doloroso pensare che non ci sarà nessun posto dove tornare, nessuno da cui tornare.
Al momento le nostre vite sono al sicuro. Come per la maggior parte di quelli che se ne sono andati, una vita su internet, una vita di notizie inquietanti, una vita al telefono, digitando “come stai?”, “dove sei?”, “sentite condoglianze per la tua perdita”.
Oggi ho parlato finalmente con mia madre…
Hennadiy
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