Mentre la meglio gioventù dell’Occidente si affanna contro un genocidio né reale né cercato, un film tanto asciutto quanto sorprendente ci ricorda senza enfasi strillate cosa fu davvero lo sterminio di un popolo solo pochi decenni fa.
Das Interessengebiet, così chiamarono i nazisti l’area di circa 20 chilometri quadrati in cui sorgevano i lager che produssero la Shoah su scala industriale. E ‘La zona di interesse” è appunto il titolo del film che l’inglese Jonathan Glazer ha dedicato al comandante del lager di Auschwitz, il tenente colonnello delle SS Rudolf Höss, e alla sua lieta famigliola: la moglie Hedwig e i cinque figli, biondi e belli.
Del romanzo omonimo di Martin Amis, cui è ispirato, il film trascura completamente gli aspetti truci già visti al cinema, per concentrarsi invece sulla vita quotidiana degli Höss: il papà quarantenne che va al lavoro come un capufficio qualsiasi (a parte la nera divisa dei Totenkopf); i ragazzi che corrono a scuola nel vicino villaggio di Oświęcim (Auschwitz); la mamma casalinga assistita da vari internati, donne per le faccende domestiche, uomini per la manutenzione esterna.
Parafrasando il romanzo di Heinrich Böll, Glazer ci mostra dunque un Gruppenbild mit Obersturmbannfuhrer, la foto di un nucleo familiare nazista installato in un’ordinata villetta borghese a più piani, con ampio giardino fiorito, piscina, orto, serra e alveare. Dal campo arrivano frammenti di rumori: spari attutiti, grida soffocate, sferragliare di treni e un ronzio sordo che fa da sottofondo inquietante alle colonne di fumo che le ciminiere vomitano senza posa. Nulla, però, turba il sereno tran tran degli Höss. Che sanno, ma non vedono, protetti da un alto muro sormontato da filo spinato attraverso il quale punteggiano il panorama le cime di numerosi edifici del lager: baracche dei prigionieri, forca, camera a gas, crematorio. Gli attrezzi del mestiere.
Pilotata da remoto, una rete di cineprese fisse registra una quiete bucolica, una normalità senza attriti e senza scosse: la banalità del male citata da Hannah Arendt. La calma è così innaturale da inquietare lo spettatore che finisce per aspettarsi il classico colpo si scena. Non sarà così. La domenica si va a fare il bagno nel Sola, un affluente della Vistola che scorre in una campagna lussureggiante di verde. La sera si cena insieme, il giorno capita di far festa in giardino con gli amici dei figli, mentre lei invita le amiche per pettegolare e sua madre passa per una visita. Quanto a Rudolf parla con certi industriali di un innovativo crematorio a ciclo continuo. Ma è solo un dettaglio. Il progresso.
L’arco temporale della vicenda resta vago. Forse siamo nel 1943. Salvo una breve interruzione, Höss diresse Auschwitz dal ’40 al ‘45. Il film si apre su uno schermo nero e la musica è subito inquietante. La scena successiva della famiglia al fiume è il primo degli episodi comuni lungo i quali tutto il film procede. Tra i tanti, Hedwig che accompagna la madre in giro per il giardino o che da istruzioni alle domestiche. Nella serra offre anche una sigaretta a un internato facendo sospettare una tresca, ma niente di più. E’ gentile, salvo quando rimprovera una delle detenute minacciandola di farla incenerire. Lo dice come se volesse semplicemente rimandarla al paesello. Rudolph, invece, festeggia invece il compleanno in mezzo a un gruppo di commilitoni e fa sesso di nascosto con una detenuta ebrea. Poi corre a disinfettarsi.
Quando lei riceve una ricca pelliccia appartenuta a un’internata, la indossa soddisfatta pavoneggiandosi allo specchio. Non mostra turbamenti né rimorsi. I figli indossano con orgoglio l’uniforme della Hitlerjugend e il maggiore gioca con un mucchietto di denti d’oro strappati ai disgraziati finiti in cenere. Tutto affoga in un lago di surreale ordinarietà interrotta solo da alcune scene in bianco e nero, girate con una termocamera e accompagnate da musica violenta: si vede una giovane donna (si saprà poi che è una vicina degli Hosse) che di notte nasconde delle mele in un campo dove sa che le troveranno i prigionieri. Riceverà in cambio uno spartito musicale che poi suona al piano. Sono gli unici momenti di gentilezza e resistenza del film. Mancano del tutto figure eroiche.
Quando Höss ottiene una promozione che lo obbliga a trasferirsi, Hedwig non vuole saperne, è felice dove sta. Rimarrà ad Auschwitz, mentre vediamo lui a Berlino partecipare a una riunione dei comandanti dei vari lager. Si parla di organizzazione, di efficienza e produttività da implementare, si danno premi per aver raggiunto gli obiettivi stabiliti da Hitler. Niente di diverso da un consiglio di amministrazione qualunque. La differenza è che qui i prodotti sono milioni di persone da uccidere.
Segue una visita medica: Rudolf ha qualche problema allo stomaco. Quando poi scende le scale dell’ospedale militare accusa conati di vomito. Che abbia orrore di sé? Guarda verso lo spettatore ed è come se avesse una premonizione: lo schermo nero che subito appare offre uno spiraglio luminoso. Allargandosi, si apre sul Museo statale di Auschwitz Birkeau. Inservienti odierni passano aspirapolveri e lavano le vetrine dietro alle quali cumuli di vecchie scarpe, occhiali e valige sono quanto resta del milione e mezzo di vittime di quei due lager.
Come le loro controparti, gli attori Christian Friedel e Sandra Hüller (Anatomia di una caduta), gli Höss vissero davvero in quell’ambiente. Dopo l’arresto nel 1946 Rudolf scrisse: “La mia famiglia se la passava bene lì, ogni desiderio di mia moglie e dei figli veniva esaudito. I bambini correvano liberi, Hedwig aveva il suo paradiso floreale”. A lungo sembrò che non provasse emozioni per aver trucidato tanta gente. Solo all’ultimo si confessò pentito. Era cattolico. Fu impiccato ad Auschwitz nel 1947. Aveva 46 anni. Lei è morta nel 1989.
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