La guerra in Ucraina si sta preparando ad una vera e propria escalation, le cui conseguenze rischiano di essere incontrollabili. Dopo alcune frenate impresse dagli Stati Uniti, e il temporaneo accantonamento delle minacce circa l’uso di armi nucleari, ora il conflitto sembra oscillare tra le previsioni apparentemente contraddittorie di un prolungamento indefinito e la preparazione ad una soluzione finale.
La svolta può collocarsi, sia sul piano militare sia su quello della propaganda, all’altezza del passaggio del Natale ortodosso. Putin aveva raccolto l’invito del patriarca Kirillov per un cessate il fuoco tra il 6 e il 7 gennaio, ma Kiev aveva risposto negativamente temendo che dietro l’annuncio buonista si nascondesse una trappola. In effetti la tregua non c’è stata, e la controversia verbale è servita soltanto ad acuire il conflitto e irrigidire le posizioni tra i belligeranti.
Di fatto, il fallimento di quel tentativo pur simbolico di deporre temporaneamente le armi ha contribuito ad accelerare il fronte militare. Secondo le fonti di intelligence ucraine e occidentali, la Russia starebbe lavorando a una nuova mobilitazione di mezzo milione di uomini, che si aggiungerebbero ai 280.000 già schierati a ottobre 2022. Questo confermerebbe, sempre secondo il governo di Kiev, che Putin non ha alcuna intenzione di porre fine alla guerra, ma anzi mira all’occupazione integrale del territorio; dall’altra parte, invece, Mosca per ora smentisce questa informazione, rivendicando però alcune nuove conquiste sul campo.
Questa battaglia “comunicativa” sta comunque conducendo ad un cambio di fase della guerra, più cruenta, distruttiva e sfiancante per il popolo ucraino, costretto per gran parte al freddo ed esposto a bombardamenti massivi. Ma questa stessa battaglia sta conducendo anche ad un più forte coinvolgimento dei paesi sostenitori dell’Ucraina.
Con quali conseguenze?
Se il dibattito attorno al rafforzamento degli aiuti militari ha riportato sulle prime pagine dei giornali italiani la guerra – quasi dimenticata nelle settimane precedenti – nessuno si interroga sul salto di qualità che esso comporta. Soltanto il direttore di Limes, Lucio Caracciolo, forte della sua prospettiva ultrarealista di geopolitica, ha posto chiaro il “bivio” a cui gli Stati Uniti, l’Europa e tutti i paesi a fianco di Kiev saranno a breve chiamati: o si accetta la sconfitta dell’Ucraina (che sarebbe inevitabile, vista la sproporzione in campo di uomini e mezzi a disposizione), o si entra nel conflitto direttamente, inviando oltre ai mezzi anche truppe.
I governi hanno chiaro il significato di una simile alternativa? E soprattutto, questa alternativa è l’unica possibile? Si è rinunciato, sul piano teorico, politico e militare, a quelle terze vie che dovrebbero essere sempre possibili, a maggior ragione davanti al rischio di una guerra mondiale?
Cercherò di andare per ordine ricordando prima il lavoro della Nato, poi le posizioni dentro l’Unione europea e infine il il dilemma per i pacifisti.
Il 10 gennaio, pochi giorni dopo la fallita tregua ortodossa, Nato e Unione europea hanno firmato un accordo di cooperazione (il terzo, dopo il 2016 e il 2018), che riguarda la cybersicurezza, il terrorismo e i rischi di instabilità politica dovuti al cambiamento climatico.
L’obiettivo di questi accordi è il rafforzamento del legame atlantista in uno scenario internazionale sempre più incerto. Ma alcuni interrogativi sorgono attorno alle implicazioni politiche, diplomatiche ed economiche di questi accordi. Prima di tutto, è normale che un organismo politico sovranazionale come l’Unione europea, che non ha acquisito dai paesi membri la delega sulle politiche di difesa, sottoscriva accordi con un’alleanza militare? Nell’Unione europea esiste solo un’agenzia per gli armamenti di natura economica, mentre in capo al Consiglio europeo è collocata la politica estera e di sicurezza comune: niente, per ora, che riguardi il piano militare. In secondo luogo, dopo la Brexit, sul piano della politica internazionale, qual è il rapporto tra Unione europea e Gran Bretagna – da sempre assai più vicina agli Stati Uniti rispetto al resto dell’Europa? Come, cioè, si sta riorganizzando (o rafforzando) questo “legame atlantico”? Terzo, dal momento che l’Unione europea dichiara di voler rafforzare la sua autonomia strategica, non è contraddittorio siglare accordi di cooperazione con la Nato, che è sostanzialmente sotto il controllo degli Stati Uniti? “L’autonomia strategica deve essere vista in aggiunta all’alleanza” con la Nato, ha risposto piuttosto debolmente il presidente del Consiglio europeo Charles Michel, ricordando gli sforzi comuni compiuti sul fronte energetico e tecnologico.
Infine, in quella sede, si è parlato anche della guerra in Ucraina. Il segretario generale della Nato Stoltenberg ha affermato: “La Russia ha subito perdite pesanti ma non va sottovalutata”, precisando che “bisogna prepararsi a garantire un aiuto a lungo termine” affinché Kiev vinca la guerra. Sia Von der Leyen sia Michel si sono impegnati a farlo per conto di tutti i paesi Ue. Ma anche quest’ultimo punto è assai critico, perché l’Ue può certamente approvare nuovi pacchetti di sanzioni economiche (come farà, estendendo il provvedimento anche alla Bielorussia), ma non può in quanto tale approvare gli aiuti militari.
Infatti, per adempiere a questo impegno tutti i paesi dell’Unione europea si sono riuniti il 20 gennaio, in una sede del tutto informale, quella del “Gruppo di consultazione per il supporto all’Ucraina”. Il Gruppo si era costituito il 26 aprile 2022 nella base aerea americana della città tedesca di Ramstein. Ne fanno parte quaranta paesi, convocati dal segretario alla Difesa USA Lloyd James Austin (non direttamente la Nato, quindi). E’ apparso subito chiaro che questo gruppo avrebbe aperto nuovi scenari geopolitici mondiali. Già nell’impostazione di quella prima riunione “storica” (definita così dal ministro americano) si delineava una nuova strategia USA: convinti che con un decisivo supporto l’Ucraina avrebbe potuto vincere la guerra, e la Russia uscire dal conflitto di molto indebolita e ridimensionata, gli Stati Uniti già prefiguravano una durata lunga della guerra. Ricordiamo, per sottolineare la premura americana in ordine alla vicenda ucraina, che gli Stati Uniti hanno stanziato anche fondi per rimborsare gli alleati che avrebbero anticipato l’invio di armi in tempi più brevi.
In questo scenario, non poteva svilupparsi alcun ruolo dell’ONU, relegato infatti alla sola funzione di supporto umanitario e di garante, insieme alla Turchia, dell’accordo sul grano. Inoltre, la grande novità del Gruppo di Ramstein è rappresentata dalla compagine dei Paesi, di cui 14 non aderenti alla Nato. Tra questi ultimi, oltre all’Ucraina, partecipano Svezia e Finlandia (che hanno avviato il percorso di adesione alla Nato, Turchia permettendo), Australia,Giappone, Corea del Sud e Nuova Zelanda sul versante Pacifico, Israele, Giordania e Qatar (dal Medio Oriente), e Kenya, Liberia, Marocco e Tunisia dal continente africano. Fuori dalle assemblee delle Nazioni Unite, e di altre agenzie sovranazionali, gli Stati Uniti stanno lavorando per rafforzare la propria egemonia mondiale oltre la Nato (sul piano militare) “strumentalizzando” a questo scopo l’errore strategico, nonché violazione del diritto internazionale, rappresentato dall’invasione russa in Ucraina.
Così come ad aprile 2022, la riunione di Ramstein del 20 gennaio scorso è servita per esercitare pressioni più forti sui paesi che hanno avuto posizioni più articolate sulla guerra, a partire dalla Germania. Anche allora il governo tedesco aveva aderito malvolentieri all’invio di armi, e oggi sta ancora resistendo di fronte alla richiesta impellente di invio dei tank Leopard 2.
Naturalmente tutta, o quasi, la stampa italiana è schierata contro la posizione di Berlino; “tentennamenti”, “incertezze”, “ambiguità” sono gli epiteti attribuiti senza tanti complimenti ai tedeschi, da parte di chi è sempre stato tetragono sull’invio di ogni tipo di armi a prescindere.
Ma occorrerebbe soffermarsi sulla natura delle nuove armi che il Gruppo di Ramstein si accingerebbe a inviare in Ucraina. Gli Stati Uniti invieranno missili antiaerei Patriot, munizioni per i sistemi terra-aria NASAMS, nuovi sistemi mobili Avenger per la difesa aerea ravvicinata, mezzi corazzati da combattimento M2 Bradley con missili anticarro TOW, veicoli ruotati 8×8 Stryker e MRAP, più proiettili, munizioni ecc. Non ci sono ancora i carri armati Abrams né i razzi MLRS HIMARS, che hanno un raggio d’azione che potrebbe arrivare in Crimea. La Gran Bretagna invierà carri armati Challenger 2, nuovi droni tattici, missili contraerei Starstreak, Brimstone e AMRAAM, e altri veicoli che erano in via di dismissione. La Francia fornirà carri armati leggeri AMX-10 e non ha escluso l’invio di carri pesanti Leclerc. L’Olanda invierà due sistemi missilistici Patriot, mentre la Finlandia ha promesso altri 400 milioni di euro in aiuti alla difesa ucraina (590 milioni in totale) senza specificare il tipo di armamenti forniti. La Svezia invierà veicoli da combattimento cingolati CV90, obici semoventi Archer e lanciarazzi anticarro NLAW. La Danimarca ha deciso di donare all’Ucraina tutti i 19 semoventi CAESAR appena acquisiti dalla Francia (l’intero arsenale danese!). La Repubblica Ceca fornirà obici semoventi ruotati DANA. L’Estonia ha messo a disposizione obici trainati FH-70 e D-30 con un numero imprecisato di munizioni oltre ad alcune decine di armi anticarro portatili. La Lettonia addestrerà 2000 soldati ucraini e fornirà sistemi di difesa aerea portatili Stinger, elicotteri Mi-17 oltre a mitragliatrici e munizioni, piccoli droni e pezzi di ricambio per obici semoventi M109. La Lituania fornirà cannoni antiaerei Bofors L-70 ed elicotteri Mil Mi-8. Il Canada fornirà altri 200 veicoli 4×4 protetti Senator e di una batteria di missili da difesa aerea NASAMS. Non è noto invece (e non lo sarà, visto il segreto posto dal Parlamento stesso!) il contenuto del sesto pacchetto di aiuti militari italiani, che dovrebbe includere anche il sistema di difesa aerea SAMP/T in cooperazione con la Francia. La Germania trasferirà a Kiev altri semoventi corazzati antiaerei Gepard, radar per il sistema di difesa aerea IRIS-T e in futuro anche Patriot. Dopo che la Polonia ha annunciato di voler inviare i Leopard 2 tedeschi, anche senza il consenso di Berlino, ieri pare che il governo tedesco abbia affermato che non farà ostruzionismo se il governo polacco chiedesse l’autorizzazione.
Ma perché si sta concentrando l’attenzione su questo invio?
Per diversi motivi.
In primo luogo, le armi di cui si sta parlando stanno su un più alto gradino di una “scala di potenza”. In generale, si sta passando da inviare armi che i paesi non usavano più, in gran parte di fabbricazione sovietica, ad armi nuove e di fabbricazione diretta. A questo salto ha provveduto da sé per prima la Gran Bretagna, rompendo l’equilibrio raggiunto con il primo Ramstein, e ora tutti sono chiamati ad adeguarsi in questa corsa a chi è più bravo a sostenere l’Ucraina.
In secondo luogo, queste armi sono mediamente molto più potenti tali da rendere assai difficile la distinzione tra difesa e attacco. I Leopard 2 sono carri armati considerati tra i migliori al mondo per velocità, autonomia, protezione e potenza di fuoco, e sono già stati usati con esiti altamente distruttivi in Kosovo, Siria e Afghanistan. Il discrimine tra belligeranza e neutralità attiva si sta facendo sempre più sottile. Basterebbe che la Russia smettesse di parlare di operazione speciale, e invocasse la guerra vera e propria, per coinvolgere immediatamente tutti i paesi europei in questo conflitto.
In terzo luogo, il fatto che l’Europa si esponga oltremodo, mentre gli Stati Uniti non hanno problemi a dire di no a Kiev sugli Abrams, riapre un confronto nell’Ue che non si può liquidare con la polarizzazione ideologica tra chi sta con Kiev e chi con Putin. Con Putin non ci sta nessuno; il problema – ed è questo che il dibattito tedesco fa emergere – è il rischio di coinvolgimento diretto nella guerra di paesi europei, con gli Stati Uniti a supportare a distanza.
Per questo sarebbe utile non semplificare, e discutere in maniera approfondita anche in Italia, conoscendo in maniera trasparente la natura e la tipologia delle armi che il nostro paese si starebbe accingendo ad inviare. Di difesa o di potenziale attacco? Per il ritiro o per la sconfitta della Russia in Ucraina? Per il ripristino della giustizia internazionale o per una nuova guerra fredda in Europa? D’altra parte sempre Limes sostiene che solo l’equilibrio del terrore avrebbe dimostrato di saper garantire un ordine internazionale, fino a che nessuno preme i pulsanti dell’atomica.
E’ chiaro che in questa situazione che si sta sempre più incartando (vedi SoloRiformisti 18 gennaio) la richiesta di pace è flatus voci, e la sola opposizione all’invio di nuove armi politicamente inefficace; i movimenti per la pace devono porsi nuovi obiettivi, agire su fronti diversi, rivendicare un ruolo pubblico a livello nazionale ed europeo. L’ “arma” più forte di cui possono dotarsi è quella della verità e del dialogo, libero e incondizionato da interessi di parte, sugli scenari futuri. Mettere i governanti di fronte alle loro responsabilità. Denunciare il confinamento politico delle diplomazie a favore delle strategie militari e di difesa (con tutto il portato di primato economico-industriale che ne consegue). Ripensare l’Europa, in rapporto con gli altri continenti e alle sfide a partire da quella climatica. Mobilitare le opinioni pubbliche internazionali, come fino a qui non è stato possibile fare.
La guerra in Ucraina è uno spartiacque per un “nuovo ordine mondiale” che non si è più ridefinito dalla caduta del Muro. Se un pensiero della pace serve, dovrà contrastare il disegno di un ritorno all’ordine della deterrenza, che potrebbe essere preceduto da uno scontro nucleare tattico tutto europeo. D’altra parte già la prima Guerra Fredda è nata sulla base della sperimentazione della bomba atomica in Giappone in funzione antisovietica. Davvero siamo disponibili a permettere che una seconda Guerra Fredda poggi sulla sperimentazione dell’uso di armi nucleari, magari in funzione anticinese?
Il punto è quello di far di nuovo convergere il pensiero della pace con gli interessi politici e i valori morali dell’Europa. Come in passato è avvenuto, grazie anche all’esistenza di una politica – soprattutto a sinistra – che sapeva fare proprio questo: dialogare coi movimenti, sviluppare una politica estera, coniugare i valori con l’interesse nazionale e farlo valere nei consessi internazionali.
Non è nostalgia, è richiamo al realismo politico; se c’è qualcuno nella politica italiana capace di andare oltre gli slogan e pensare il futuro.
Anita Ferri
Buongiorno Daniela
grazie per l’analisi e per la tua solita lucida correttezza. Aggiungerei il fattore economico a questa analisi, sarebbe interessante che chi si occupa di analisi storico economica evidenziasse l’importanza di questo lato che è rimasto molto in ombra.
Buon lavoro e buana giornata.
Anita