In questo modo non era mai successo. Per la prima volta, nella storia repubblicana del nostro Paese, un atto di esclusiva competenza istituzionale del Parlamento italiano – nella fattispecie, del Senato della Repubblica, nei suoi delicati rapporti con il Potere Giudiziario – è stato condizionato, di fatto determinato, non tanto da tornaconti partitici parziali (non è in fondo questa la novità) ma dalla loro mediata interpretazione da parte di una Società for profit – la “Casaleggio Associati” − priva di qualunque legittimazione politica e di qualsivoglia assoggettamento a verifiche di correttezza e trasparenza democratiche a carico di autorità terze e superpartes. Quanto si è consumato in questi giorni intorno al caso “Diciotti” – la nave della Guardia Costiera italiana che, fra il 14 e 15 Agosto scorso, ha tratto in salvo 190 migranti alla deriva nella Zona di Ricerca e Soccorso maltese, costretta poi per dieci giorni ad ormeggiare bloccata, col suo carico umano, nei porti siciliani – e all’indizione di un referendum fra gli affiliati del Movimento Cinque Stelle per dettare la linea ai propri Parlamentari circa la concessione dell’autorizzazione a procedere contro il Ministro Salvini, segna ufficialmente la prima uscita dalle procedure democratiche dello Stato di Diritto e il primo tentativo di ingresso in un regime di sé dicente democrazia diretta.
L’analisi potrebbe giocarsi su più piani. Il primo, quello etico, appare il più distante ma, lo vedremo alla fine, è quello più dirimente. Tralasciamolo però per un minuto. Un secondo è quello più delicato, e riguarda il carattere partecipativo del “nuovo” modo fare: cosa c’è di più democratico − si dice − che dare la parola al “popolo”?
Innanzitutto, quale popolo? Un Governo democratico nasce dalla competizione e dal conflitto elettorale, che proclama un vincitore e un vinto, una maggioranza e un’opposizione. Ma, nel momento in cui il Governo si forma e ottiene la fiducia, esso non è più solo o tanto l’Esecutivo della fazione che ha prevalso ma un Organo statale a garanzia di tutta la collettività, compresa la sua parte che è risultata in quel frangente sconfitta. Quei cinquantamila e passa votanti on line che hanno cliccato “sì” o “no” sono forse il popolo? O, come una sineddoche, sono una parte del suo tutto? E a che titolo lo sarebbero?
In secondo luogo, quale “parola”? Dietro la vicenda “Diciotti” e la richiesta di autorizzazione a procedere vi è una congerie complessa di questioni giuridiche, nazionali e internazionali, e vi si gioca – come ormai sempre più spesso, visto il fitto intreccio di presupposti e conseguenze – un bisogno irrinunciabile di corretta informazione che, sola, approssimerebbe (forse) l’etica democratica di una consultazione come quella effettuata. Chi ha considerato, nell’accingersi al “click”, che quei migranti non erano affatto “clandestini” (come sempre urlato da Salvini) ma – a norma dell’articolo n. 33 della Convenzione di Ginevra del 1951, cui l’Italia ha aderito – “rifugiati” e “richiedenti asilo”, che gli Stati sottoscrittori hanno l’obbligo di soccorrere anche a prescindere dal riconoscimento come tali o dal fatto che chi fugge non abbiano ancora potuto presentare domanda in tal senso? E chi era davvero consapevole del fatto che l’imputazione del reato di “sequestro aggravato di persona e di minori” si configurava non per aver bloccato lo sbarco in sé ma per averlo fatto a Catania a partire dal 20 Agosto in poi, dopo che il Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Toninelli, aveva, il giorno prima, disposto come porto sicuro di attracco la città etnea, sancendo così istituzionalmente la responsabilità formale dello Stato Italiano nei confronti delle persone intrappolate su quella nave, minori compresi? Chi, il 18 febbraio scorso, ha giocato al videogame di Rousseau – peraltro con il quesito cambiato in corso d’opera, con gli ingolfamenti sembra dovuti a problemi di connessione, con la mancanza infine di “rappresentanti di lista digitali” a controllare e a verificare, ad avallare o a contestare regolamenti (quali?) alla mano – non si è espresso su questo mosaico di questioni. Lo ha fatto – bastava leggere le loro bacheche Facebook, Instagram, Twitter ecc. – per salvaguardare il Governo (ma) Gialloverde o per indebolirlo, o ancora per rispetto di uno dei principi fondativi del M5S (a processo, sempre e comunque) o nella pragmatica e utilitaristica disponibilità ad addomesticarli e ad annacquarli. Insomma, per molte cose – alle quali ci si può sollazzare di facile coscienza sé dicente democratica, appagati per aver avuto la possibilità di dire un “sì” o un “no” – ma non per quella di merito,, per la quale serviva invece riflessione e confronto, argomentazione di testa e non sommovimenti di pancia.
Eccoci allora alla questione “etica”. È una parola grande. Alcuni dicono più piccola di quella di “Morale”. Ma, in realtà − nell’epoca della crescente potenziale autodeterminazione personale – ben più impegnativa. Dietro le procedure invise e odiate dai tanti “popolani” sbrigativi; dietro i delicati rapporti ed equilibri fra i Poteri dello Stato; dietro la necessità di sapere per capire, e di capire per giudicare; dietro tutto questo, c’è una cultura, un habitus, una mentalità, un modo di fare, che è il precipitato che la Storia – anche e soprattutto dolorosamente – ci ha lasciato in eredità. La Democrazia liberal-democratica è forse “il regime meno peggiore” – come qualcuno ha detto – che abbiamo a disposizione. È quello tuttavia che – grazie al paziente, faticoso, defatigante, a volte forse indisponente, ma pur sempre inevitabile, lavoro di ascolto, dialogo, compromesso e rimessa in discussione che esso richiede – ha, il solo, consentito quel dispiegarsi di autodeterminazione di un numero sempre crescente di persone. La si privi di uno di quegli elementi là sopra (per contrasto) brevemente ricordati ed essa si trasmuterà velocemente nel suo simmetrico opposto, questo sì davvero peggiore: un’oligarchia demagogica autoritaria.
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