Le regioni non sono solo espressione geografica e politico-istituzionale del territorio ma sono anche l’espressione di diversi caratteri culturale, socioeconomici e politici sedimentati nel passato recente ed in grado di determinarne le possibili trasformazione del domani.
Pensiamo al Veneto, alle sue vorticose trasformazione indotta dalla impetuosa crescita economica del dopoguerra, al permanere, ancorché attenuati, di valori tradizionali e di un forte sentimento religioso e, sul piano politico, di un solido e duraturo consenso alla Democrazia Cristiana fino al tracollo del sistema dei partiti quando è emersa la Lega che tuttavia nel Veneto si differenzia – soprattutto nei tempi più recenti – per una perdurante centralità del tema dell’autonomia, fino a sfociare in pulsioni indipendentiste col recupero della memoria della Serenissima.
Son note le ultime vicende politiche della regione, , dal referendum sull’autonomia del 2017 al trionfo di Zaia alle elezioni regionali del settembre 2020.
Su questi temi abbiamo intervistato il Prof. Daniele Marini, Professore di Sociologia dei processi economici e Sociologia del Territorio presso l’Università di Padova, Direttore Scientifico della divisione Research & Analysis di Community, Editorialista del quotidiano “Il Sole 24 Ore”, attento studioso della realtà economica, sociale e politica del Veneto e del Nord Est.
“Dalla pellagra ai schei”: si può sintetizzare così il cambiamento intercorso nella società del Veneto da inizi Novecento fino agli anni del boom?
Diciamo che la peculiarità del Veneto – peculiarità nordestina, se vogliamo – è che nel giro di pochi decenni in realtà questa società e questa economia hanno conosciuto una vera e propria rivoluzione, perché, come ricordava giustamente fino alla fine degli anni ’50 (ricordo che l’alluvione del Po fu nel 1951) il Veneto e il NordEst era un territorio di emigrazione, un territorio dove la povertà era ancora diffusa, una società contadina con piccole piccolissime imprese: Fino agli anni ’60 era una realtà considerata come il meridione del Nord, perché qui si facevano tanti figli nonostante fosse un territorio povero, e ne abbiamo anche una rappresentazione nei film dell’epoca: se andiamo a vedere chi erano le figure che interpretavano la colf o il militare o il carabiniere erano veneti e friulani. Era tipico nelle realtà milanesi o torinesi avere la colf veneta o friulana.
Già questo ci dà l’idea di come era considerato questo territorio, un territorio appunto che si fondava sulle piccole e micro imprese, ed era il meridione del Nord non solo da questo punto di vista ma anche dal punto di vista economico, perché fino a tutti gli anni ’60 la concentrazione delle industrie era nel triangolo industriale – GE-MI-TO Genova, Milano, Torino – e si guardava a quest’area come un’area periferica proprio per questa sua caratterizzazione di piccole imprese artigianali.
Siamo negli anni ’60, ma quando prende avvio il processo di industrializzazione nel giro di 20 anni il Veneto passa da territorio periferico sotto tutti i profili, a territorio centrale: è negli anni ’80 che quest’area vede fiorire e crescere la sua economia in virtù dei distretti industriali e delle piccole imprese che hanno cominciato a beneficiare del fatto che la grande impresa fordista – vedi Fiat, Pirelli ecc – stava diminuendo di dimensioni e favoriva lo sviluppo di piccoli imprenditori artigiani. È da allora quindi, parliamo di vent’anni circa, in cui quest’area è cominciata a crescere economicamente e socialmente: nel giro praticamente di due generazioni il territorio ha cominciato letteralmente a trasformarsi: a industrializzarsi, a crescere, tant’è che è stata studiata alla fine degli anni ’90/ inizio anni 2000 a livello internazionale per le sue performance. Eravamo considerati i cinesi d’Europa, dal punto di vista della crescita economica, tant’è che io stesso ho avuto modo di incontrare gli studiosi di Clinton ai primi anni 2000 che cercavano di capire come fosse possibile che una realtà – fino a pochi decenni prima periferica – fosse diventata quella che abbiamo conosciuto come la locomotiva d’Italia.
E’ stato solo un lungo viaggio all’insegna dell’arricchitevi!? O piuttosto una concezione della vita fondata sulla volontà di realizzarsi attraverso il lavoro, il lavoro creato con la propria intelligenza ed inventiva, non atteso dallo Stato, cui si chiede solo di non essere d’intralcio?
Sicuramente il riferimento agli schei di Gian Antonio Stella, che hanno sintetizzato e rappresentato quest’area, sono stati un motivo importante, però va letto anche in questi termini: schei inteso come riscatto sociale: ripeto nel giro di pochi decenni questo territorio da povero si ritrova ricco, e siccome questo è avvenuto nel giro di pochi anni, ciò non è stato accompagnato anche da una parallela crescita culturale, perché se tu da contadino, da povero diventi ricco nel giro di poco tempo, non hai avuto modo di fare un’elaborazione culturale di ciò che è avvenuto. In questo senso Gian Antonio Stella aveva ragione a definire schei questa crescita, cioè segnata dalla dimensione economica, però come in tutte le rappresentazioni sfugge qualcosa, e sfugge per il fatto che in realtà quest’area ha conosciuto invece anche una profonda trasformazione da un punto di vista culturale, basti pensare che le giovani generazioni a partire dagli anni ’80 hanno cominciato a studiare molto più che nel resto d’Italia, le famiglie cioè hanno spinto le giovani generazioni in particolare le donne a proseguire nelle carriere scolastiche. Oggi è vero che la media dei titoli di studio è ancora leggermente più bassa rispetto alla media nazionale ma se noi isoliamo le fasce giovani vediamo come siano cresciute tantissimo, per non dire poi di tutti i processi che si sono innescati a partire dagli anni 2000 che hanno visto quest’area anche trasformarsi anche da un punto di vista culturale.
Però la cosa interessante è che tutto ciò è avvenuto in modo assolutamente veloce e anche non guidato, non controllato.
E forse è avvenuto anche perché non è stato controllato e guidato, è il risultato di un’etica individuale del lavoro che segna anche una responsabilità sociale. Per dire, nelle crisi recenti ci sono stati numerosi suicidi di imprenditori veneti legati al fallimento della loro azienda, perché questa non era soltanto un fattore di arricchimento ma anche di autorealizzazione, di responsabilità verso la collettività ed l’incapacità di far fronte al proprio ruolo sociale ne ha portati più che in altre parti d’Italia a gesti estremi come togliersi la vita.
Allora, io definisco questo territorio una società laburista: laburista non nel senso ovviamente politico del termine, perché come sappiamo questa è un’area che ha un orientamento più conservatore, ma laburista perché ha nel lavoro il suo elemento di identità sociale. Se facessimo una ricerca e domandassimo ai veneti in cosa si riconoscono, sulla base di quali caratteristiche, troveremo che il lavoro, diversamente dal resto del Paese, è al primo posto perché nel lavoro si identificano tanto gli imprenditori quanto i lavoratori dipendenti, perché il lavoro rimanda ad altre dimensioni valoriali come l’autonomia e il far da sé. In altri termini, attraverso il lavoro io ottengo un riscatto sociale, come dicevo prima, che è ancora vero oggi. Questa società appunto, che definisco società laburista, non ha avuto una guida dal punto di vista politico istituzionale perché qui si è preferito lasciare liberi i cosiddetti spiriti animali, cioè gli spiriti imprenditoriali e questo ha giustificato un periodo di crescita, di effervescenza economica che ha portato alla ricchezza diffusa di questo territorio, che continua a rimanere uno dei più ricchi del nostro Paese.
Qui è vero ci sono stati diversi casi di titolari che si sono suicidati, non prima di aver dato tutti i soldi che avevano ai dipendenti. Questo perché – faccio solo una battuta – fare l’imprenditore qui non è solo una questione di status: poiché le imprese nelle piccole città sono una sorta di promessa sociale, perché poi questi imprenditori assumono i parenti, gli amici, gli ex operai che erano loro colleghi, diventa quasi una missione, e pensare di dover chiudere un’impresa non è solo un problema che riguarda l’imprenditore che chiude, è un problema che riguarda le famiglie di quella società di quella località. E quindi lo stigma sociale diventa pesantissimo al punto, appunto, che diversi imprenditori si sono tolti la vita.
Il Veneto si caratterizza, e si caratterizzava, anche per profondi valori comunitari che erano espressi soprattutto dalla Chiesa, dal sentimento religioso dalla partecipazione dei cittadini a una vita e attraverso la Chiesa anche vita comunitaria. Questo permane ancora, si va attenuando, non sopporterà i cambiamenti delle nuove tecnologie indurranno nella realtà anche del Veneto?
Il ruolo della Chiesa da un punto di vista sociologico è stato fondamentale, soprattutto nelle fasi della ricostruzione dopo la fase bellica, perché di fatto potremo dire che la Chiesa ha costituito i prodromi di un sistema di welfare in ambito locale, ha costruito un welfare dal basso di cui ancora oggi se ne vedono ampi segnali basti pensare per esempio che gli asili nido e le scuole materne sono prevalentemente gestiti da associazioni del mondo cattolico, da suore. Poi, la quantità di oratori, patronati, cinema, teatri i campetti da calcio. La Chiesa cioè negli anni ‘50 e ’60 ha costituito quello che potremmo definire un welfare dal basso e ha costituito ovviamente anche una cornice culturale attraverso la sua morale cattolica ma anche attraverso il voto, la politica, assumendo un ruolo pervasivo. Ora in particolare con i processi di secolarizzazione degli anni ’80 la Chiesa ha perso molto di questo ruolo, anche perché tutta una serie di altre agenzie si sono inserite e hanno occupato gli spazi che prima erano tipici della Chiesa. Ora è venuto meno questo ruolo di coesione– vorrei solo ricordare un dato: negli anni ’50 frequentavano la messa assiduamente, cioè tutte le domeniche, il 90% della popolazione, oggi siamo intorno al 25%. Solo per ricordare il livello di cambiamento intervenuto, basta osservare la famiglia. oggi l’itinerario medio di una coppia giovane è quello di uscire di casa intorno ai 30 anni per andare a convivere, cui segue dopo 3-4 anni la nascita di un bambino, di solito unico, allora la coppia si sposa, aggiungendo che nel 60% dei casi la coppia si sposa in Comune.
Già solo questi dati raccontano di una trasformazione culturale profonda, però nello stesso tempo bisogna dire che se il ruolo della Chiesa è venuto illanguidendosi, tuttavia questo è un territorio dove la partecipazione associativa è fra le più alte d’Italia. Qui abbiamo la massima espressione di volontariato, la massima espressione di auto organizzazione solidale, quindi è come se la Chiesa avesse perso un ruolo fisico, centrale, e al suo posto avesse dato vita a un insieme di altri attori, più o meno collegati al mondo cattolico, ma non più così evidenti in termini di appartenenza, che costituiscono anch’essi una rete di coesione sociale molto importante. Un dato su tutti: le manifestazioni delle sagre, che generalmente si svolgono all’interno delle parrocchie, circa un nordestino su due dà il suo impegno gratuito per organizzarla.
Quindi è venuto meno il ruolo della Chiesa come punto di riferimento effettivo in termini di appartenenza, però la cultura cattolica rimane una cornice di riferimento dentro la quale sono nate nuove formazioni, nuove entità, nuovi soggetti che più o meno si rifanno a questa radice culturale e che però creano una trama di coesione ancora oggi molto forte.
Dai media e non solo è emersa negli anni una immagine di chiusura dei veneti verso i migranti con espressioni che dall’esterno sono state considerate xenofobe: come può essere valutato il rapporti con i migranti?
Bisogna distinguere due piani. C’è un piano politico, quello cui fa riferimento la domanda e che attiene alla Lega che a più riprese ha rivendicato il tema dell’identità locale come tema molto forte su cui realizzare una contrapposizione fra io e noi, cioè fra l’identità veneta e i migranti, con il tema dei migranti è sempre stato un cavallo di battaglia di questa formazione politica, in cima alle preoccupazioni fino a quando non è sopravvenuta quella per la salute con il COVID.
Lascerei un attimo sullo sfondo il piano politico perché invece nelle trame quotidiane, nel Veneto e nel Nordest delle forme associative e di coesione sociale fra le più intense d’Italia, come ha testimoniato il CNEL in uno studio di qualche anno fa si può notare come il grado di integrazione dei migranti in questi territori è il più elevato d’Italia. Questo per dire che un conto è il punto di vista politico, un altro è invece la società civile, la sua capacità di mobilitarsi di fronte a un fenomeno come quello dei migranti. Vorrei ricordare che nel Nordest il grande afflusso di migranti comincia nel 1989, anno in cui per la prima volta si nota un balzo molto elevato di afflusso di migranti – che peraltro arrivavano dal Mezzogiorno dove prima andavano a lavorare. A fine anni ’80 abbiamo la crescita economica dei distretti industriali: poiché c’era già allora il calo demografico e le imprese avevano bisogno di manodopera, i migranti dal Sud sono iniziati ad arrivare in questi contesti. Quando cominciano ad arrivare a frotte consistenti i primi che si sono dati da fare per la loro accoglienza sono stati il mondo del volontariato, cioè il mondo cattolico prevalentemente, i sindacati perché questa gente andava a lavorare, e anche gli stessi imprenditori, che non hanno mai accarezzato le prese di posizione leghiste, perché molto pragmaticamente se non fossero arrivati i migranti molte imprese avrebbero chiuso, così come avrebbero chiuso molte scuole.
Per quanto conosco, senza migranti Fincantieri avrebbe enormi difficoltà .
Oppure Fincantieri, ma quella è l’esempio eclatante, ma basta pensare a tante botteghe artigiane. O al settore dell’edilizia che è totalmente straniero, nelle fabbriche metalmeccaniche o nelle concerie per vedere chi sono i lavoratori e così pure nel settore del marmo, o del legno. Quindi, un conto è la battaglia politica – peraltro mi viene anche da dire che molti amministratori leghisti hanno saputo gestire egregiamente questa situazione – altra cosa invece è la società civile e l’accoglienza di questi migranti. Con questo non voglio dire che “son tutte rose e viole” perché i problemi di convivenza ci sono, ovviamente. In più se pensiamo che oggi la popolazione è anziana, molto anziana, e questo incide sull’apertura culturale ad altre popolazioni, ma al di là di questo, il Veneto è un territorio dove l’integrazione dei migranti è fra i meno problematici. Con questo non voglio dire che non ci siano problemi, sia chiaro, ci sono ma la capacità di coesione sociale è molto più alta.
Lei ha parlato in un saggio di qualche anno fa della necessità per il Veneto di avere una classe dirigente adeguata. Ci siamo ritrovati alle ultime elezioni regionali con un presidente Zaia che è stato eletto con percentuali bulgare: si può affermare che questa carenza di leadership è stata colmata con la vittoria di Zaia e del mondo che lo circonda, cui è attribuita una profonda consonanza con la realtà del territorio.
Il problema vero è che questo territorio fatica a esprimere classi dirigenti, che non sono solo politiche ovviamente perché classe dirigente è anche il presidente di una associazione, di una realtà di volontariato, sono tutti coloro i quali fanno scelte che hanno ricadute sulla collettività. Peraltro questo è un territorio che ha espresso classe dirigente nazionale, perché De Gasperi era trentino, Rumor era vicentino, De Michelis recentemente morto era veneziano, era socialista per non dire di Bernini, di Bisaglia, Piccoli… cioè tutte figure che sono stati anche capi di governo. Quindi era un territorio in grado di esprimere classe dirigente del calibro nazionale, però poi a un certo punto – proprio perché è mancata quella elaborazione culturale connessa con lo sviluppo sociale ed economico degli anni ’70 e ’80 – le realtà che producevano classe dirigente – pensiamo ai movimenti della Azione Cattolica, piuttosto che i sindacati CISL, CGIL, il Partito Comunista con le sue scuole come Le Frattocchie ecc –queste realtà hanno smesso di fare riflessione politica e formazione politica, per questo abbiamo la difficoltà a generare classe dirigente che non si formi attraverso l’autodidattica all’interno delle amministrazioni locali. Di conseguenza succede che se c’è uno bravo, al di là del colore politico, cioè uno che sa fare politica – Zaia è figlio della cultura democristiana – emerge, ma se escludiamo lui altra classe politica dello stesso livello non c’è, purtroppo non c’è. E lo dico anche per lui stesso, nel senso che non vanno bene le vittorie bulgare, com’è noto!
Qualche mese fa abbiamo curato uno speciale dedicato a 50 anni dalle Regioni con interviste a diversi politici, a qualche storico, imprenditore: l’analisi ci ha portato a interrogarci sulle ragioni profonde per le quali la sinistra in senso lato non è mai stata in grado di affermarsi in una regione come il Veneto? Cosa lre è mancato per entrare in sintonia con il comune sentire dei cittadini veneti?
Se mi permette devo correggere la sua affermazione nel senso che non è vero che la sinistra non è in grado, perché la sinistra ha governato e governa le città e Comuni anche importanti Valdagno, Schio, per non dire a suo tempo di Rovigo, ma Venezia stessa è stata governata dalla sinistra fino alle penultime elezioni. Quindi non è vero che la sinistra qui non sia in grado di vincere. Ricordo che dopo Tangentopoli (anche in Regione Veneto tutta una serie di figure di spicco della Democrazia Cristiana e del Partito Socialista furono coinvolte), ci fu l’unico Governatore – Presidente di Regione, allora non si chiamava Governatore – dell’’ex PCI Giuseppe Pupillo.
C’è un corrispondente esatto in Lombardia negli anni a cavallo fra il ’92 e il ’94, Fiorenza Ghilardotti, ma sono presidenze per cause giudiziarie, non per consenso elettorale…
Detto questo, effettivamente a livello regionale la sinistra in generale non è mai stata in grado di esprimere figure tali da riuscire a vincere le elezioni regionali. Qui imputo alla sinistra, al centro sinistra una difficoltà di carattere culturale, nel senso che non tanto la sinistra riformista ma la sinistra ex comunista che comunque era prevalente, non ha mai fatto i conti veramente con la realtà socio economica di questo territorio. Ad esempio, tu non puoi continuare ad applicare qui le categorie marxiane tipiche del rapporto fra capitale e lavoro, perché in una realtà come questa dove il 60% degli imprenditori è un ex operaio, quello schema culturale salta, non c’è: perché l’operaio subordinato fino al giorno prima era tale, ma il giorno dopo diventa imprenditore a sua volta. Quindi quel confine fra capitale e lavoro qui non esiste.
Quindi applicare quegli schemi – che sono tipici della grande impresa industriale fordista, del grande capitalismo – applicarli a un territorio come il Veneto o il Nordest più in generale non riesce a parlare il linguaggio della popolazione, che ha invece in testa l’autonomia, il far da sé e che quindi in quello schema non si ritrova. Questo che cosa vuol dire? Vuol dire che in questi anni il centro sinistra, la sinistra in particolare, non è riuscita mai a trovare dei canali di comunicazione reali con la “pancia” – diciamo così – di questo territorio. Prova ne sia che nelle ultime elezioni regionali alla fine il centro sinistra è andato sempre a pescare figure da eleggere che non erano della sua tradizione ma erano figure imprenditoriali o para imprenditoriali: quindi hanno preso imprenditori, esponenti del mondo artigiano, l’ultimo caso è questo docente universitario mio collega, padovano ma che viene fuori dal movimento ambientalista, quindi non sono mai riusciti in questi ultimi 20 anni a esprimere una classe dirigente dal proprio interno, che sia riconoscibile.
Non solo manca una classe dirigente manca, manca anche un progetto politico
Assolutamente sì, anche perché come nell’ultimo caso il candidato alle regionali viene deciso a febbraio 2020 quando le elezioni sono a maggio-giugno! Tu non puoi pensare, per quanto uno sia bravo, nel giro di 4 mesi si scontri con la corazzata Zaia! Devi avere una progettualità politica che sia come minimo quadriennale, quindi di conseguenza il centro sinistra continuerà a rimanere confinato dove è fintanto che non capirà che deve fare una seria riflessione culturale su questo territorio, sul suo sviluppo sulle prospettive, e soprattutto non si metterà a fare una vera e propria progettualità politica, ma sapendo che deve partire oggi per le elezioni del 2025. Se non capisce questo sarà destinato alla marginalità così come lo è già oggi.
il Veneto è stato capofila insieme alla Lombardia ma con tratti diversi , di una proposta per una forte autonomia regionale. Quanto peserà nel futuro prossimo venturo, visto anche come è stata gestita l’esperienza della pandemia, questa conflittualità che ha investito tutta l’Italia, quanto peserà nel futuro politico del Paese e quanto sarà ripreso dalla realtà veneta.
Come sa questa è la madre di tutte le battaglie di Zaia, cioè riuscire a portare a casa elementi di autonomia che peraltro sono assolutamente richiesti dalla grande maggioranza della popolazione in modo trasversale alle appartenenze politiche. Dal mio punto di vista, c’è un errore iniziale da parte di Zaia, cioè aver voluto operare come una sorta di caterpillar, cioè richiedere tutte e 23 le materie: ora questa può essere anche una strategia sindacale, come è noto – domandare 100 per ottenere 50. Adesso tutta una serie di passi istituzionali, fra l’altro con governi di centro sinistra, sono stati realizzati, l’ultimo con Gentiloni e Bressa, poi subentra il Covid e ora vedremo cosa succede. Credo che l’auspicio di questo territorio sia di riuscire ad avere almeno alcune di queste competenze, in modo da poter gestire autonomamente una serie di ambiti. Dire quando questo accadrà credo nessuno sia in grado di prevederlo, siamo di fronte a una situazione in cui viaggiamo con le emergenze di cui sappiamo, si naviga giorno per giorno, vediamo cosa succederà. Certo è che questo è forse il punto chiave della esperienza zaiana. E credo passerà alla storia non solo per aver avuto, da 50 anni in qua, da quando ci sono le Regioni, la votazione più elevata in assoluto di governatore – e l’ha ricevuto lui, si badi bene, non tanto la Lega. È una fiducia nella persona. Lui passerà però alla storia se riuscirà a ottenere per il Veneto almeno alcune delle autonomie richieste.
Però di questo bisognerà che ci risentiamo più avanti!
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