Il passo è, indubbiamente, cruciale! Con la fiducia strappata alla Knesset (59 no, 60 si), l’Esecutivo di alleanza nazionale Bennett-Lapid archivia l’era dark -incarnata dal suo artefice assoluto Benjamin Netanyahu- per aprire in e ad Israele una nuova strada. Quanto nuova, però, sarà tutto da vedere.
Alle promesse di pace e di sicurezza di volta in volta violate da una realtà complessa e turbolenta, la guerra appena terminata sembra aver aggiunto un elemento per molti versi, inedito di forte destabilizzazione e grande preoccupazione per la terra della stella di David.
Come ha sottolineato acutamente il Presidente Pierferdinando Casini in occasione di una recente manifestazione culturale in provincia di Firenze, il nuovo durissimo conflitto (terminato solo poche settimane fa, con una tregua ancora assai precaria) ha segnato un salto di qualità di assoluta rilevanza: “la presenza -cioè- della guerra all’interno alle città israeliane costituite, ormai per oltre il 20%, da popolazione araba”.
Lo scontro, per decenni tenuto oltre confine, ha varcato la frontiera (che sembrava impenetrabile) e, subdolamente attraverso i lavoratori arabi, si è insinuato nel tessuto sociale israeliano.
Una novità dirompente figlia della grande ed irrisolta contraddizione (pragmatica, più che ideologica) israeliana: la necessità di manodopera araba e, per contro, l’indisponibilità -nei fatti- a riconoscere il diritto all’esistenza di un intero popolo.
Ma anche eredità evidente della logica della forza (tradotta, negli ultimi lustri, in mira espansionistica), della supremazia militare di Israele i cui confini erano ritenuti inviolabili, ma principalmente, conseguenza, della ritrosia culturale alla prospettiva di una terra condivisa. Prospettiva, peraltro, avversata -nella trincea opposta- anche dal popolo arabo educato -ed in ciò l’Autorità Palestinese ha molto da rimproverarsi- all’odio cieco verso il popolo e lo stato ebraico.
Ma se è vero che la traslazione del conflitto all’interno di Israele archivia -pressoché definitivamente- la possibilità di convivenza pacifica tra ebrei ed arabi in un unico territorio (la storica teoria: un territorio due popoli), essa sembra anche porre in seria crisi la teoria -tanto cara all’Occidente- dei “due popoli in due stati” e, persino, la prospettiva assai utopistica (ma intellettualmente avvincente) avanzata dallo scrittore israeliano Abraham Yehoshua dello “Stato binazionale” nella forma della confederazione di cantoni sul modello elvetico.
Soluzioni messe alle corde dalla irriducibile la difficoltà di individuare gli arabi come un unico popolo in forza della diversa appartenenza religiosa (sciiti -gli integralisti, incarnati in Israele da Hamas- e sunniti sono due popoli a tutti gli effetti), sia perché lascia inevaso il problema dei problemi: la gestione di Gerusalemme, patrimonio morale indiscutibile e indivisibile dell’intera umanità.
La nuova variante del conflitto arabo-israeliano -accompagnata alla forte ascesa di Hamas nel panorama palestinese- impone quindi un serio e profondo ripensamento strategico sia per Israele che per l’intera comunità internazionale che per decenni si è nascosta dietro la formula due popoli-due stati.
A novità si rispondere con novità!
L’idea, ad esempio, di offrire cittadinanza in un’unica terra a tre popoli (quello ebraico, quello arabo sciita (incarnato, tanto per intenderci da Hamas) e quello arabo sunnita in forza all’Autorità Palestinese) individuando la città di Gerusalemme come “protettorato” internazionale ed autonomo, potrebbe costituire un piccolo, abbozzato ed umile nuovo contributo alla pace.
Una cosa è certa: rispondere alla mutata situazione con approcci vetusti rischia di aggiungere difficoltà a difficoltà e portare nuove incomprensioni.
Del resto: sicurezza di Israele, legittimazione all’esistenza dei popoli arabi ed integrità di Gerusalemme sono elementi inscindibili di un qualunque realistico disegno di pace.
L’idea di rispettare la diversità culturale araba ponendo a disposizione delle due grandi famiglie: sunniti e sciiti terroristi diversi, amministrati da due governi (o autorità) distinte, da un lato, contribuirebbe a togliere i giovani (in potenza nuove reclute) alle maglie della propaganda/reclutamento terroristico: opera a cui l’Autorità Palestinese ha -di fatto e scientemente- abdicato da anni, e dall’altro, permetterebbe ad Israele oltre ad una più semplice gestione della sicurezza, la possibilità di intavolare un vero ed autentico dialogo tra il popolo ebreo e la porzione araba moderata quale testimonianza di un’autentica possibilità di convivenza pacifica.
Quella convivenza di cui il nuovo Governo potrebbe divenire testimonianza viva visto che tra le forze di maggioranza vi è il partito degli arabi israeliani: altra novità assoluta (e quella davvero storica) della politica israeliana!
Certo, una tale prospettiva comporterebbe un passo di lato per tutti su Gerusalemme.
Lo si voglia o no, la palla (al secolo; la responsabilità) torna nel campo israeliano: l’unica democrazia del Medioriente, a cui l’urgenza delle mutate condizioni impone un atto di vera “autorità morale e democratica”: abbandonare le mire espansionistiche per offrire a sé stessa e all’intero Medio Oriente -dilaniato da infinite guerre- un futuro di prosperità nella pace.
Compito immane posto nelle mani dell’unico strumento democratico forse possibile: il Governo di unità nazionale.
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