La caratteristica saliente della Legge delega sulla riforma fiscale presentata in Consiglio dei ministri è la vaghezza, quasi al limite del dettato costituzionale. Su molti aspetti specifici, dall’effettiva progressività dell’IRPEF (flat tax, progressività continua, o scagliani limitati?), alla sostituzione dell’IRAP con altre forme impositive (IRES, IVA?), alla tassazione immobiliare (leggi catasto), al fisco regionale e locale (la fine dell’autonomia tributaria?) e così via, si hanno solo indicazioni di massima o meri auspici. Per cui occorrerà attendere ii decreti delegati o la parte della riforma inserita nella legge di bilancio per saperne di più. La sensazione è che Draghi voglia fare come ha fatto con il PNRR, dare l’impressione ai partiti di maggioranza di ascoltarli nella legislazione “primaria”, ma poi fare, al riparo della disinformazione e incompetenza dei più, come crede meglio nella sede legislativa “minore”, quella operativa..
Ma ciò che colpisce di più è la vaghezza sull’impianto finanziario generale della Legge delega. I padri fondatori della scienza delle finanze teorizzavano che le riforme fiscali debbono essere neutrali in termini di gettito complessivo, non contemplando di finanziarla né con una riduzione delle spese pubbliche (un altro capitolo da trattare separatamente), né soprattutto ricorrendo al debito. Le riforme fiscali sono miglioramenti strutturali per definizione per cui non possono essere causa di uno squilibrio strutturale come è il debito pubblico. Né vale, a questo fine, ricorrere all’utilizzo di fondi che si sono resi disponibili grazie a situazioni economiche irripetibili, come il basso profilo dei tassi di interesse attualmente prevalenti. Forzare il disavanzo primario quando l’effetto “palla di neve” è finalmente positivo dopo un decennio è il tipico comportamento da cicale, indifferenti rispetto alle dimensioni del nostro debito pubblico.
Ma si sostiene a gran voce: la riforma fiscale è finalizzata anche a sostenere la crescita economica, attraverso una riduzione generalizzata della pressione fiscale. Tuttavia, “ridurre le tasse degli italiani” è un mantra tanto unanimemente sostenuto, quanto privo di sostanza economica. Non sempre lasciare o aumentare con riduzioni d’imposta e bonus fiscali i soldi nelle tasche degli italiani è produttivo dal punto di vista dello sviluppo dei consumi. Le prime indagini empiriche sulla slavina di liquidità arrivata agli italiani indiscriminatamente per alleviare gli effetti della pandemia indicano un notevole incremento dei depositi bancari e degli investimenti in borsa e quindi un indubbio aumento del risparmio, anziché del consumo aggregato. Certo a livello disaggregato la musica cambia, molte famiglie hanno tratto effettivamente sollievo, ma non pare che tra il 2020 e il 2021 il governo si sia curato troppo di chi ha fatto pervenire le risorse.
Tuttavia, una riforma fiscale può essere effettivamente orientata alla crescita, ma nella sua composizione e qui non serve troppa fantasia, basta attenersi alle indicazioni, alle accorate perorazioni della Commissione europea dell’ultimo decennio. Ovvero: ridurre la tassazione dei fattori produttivi, riducendo il cuneo fiscale e il carico sulle imprese; ridurre le esenzioni e le tax expenditures (a proposito dei bonus…); riequilibrare la tassazione sulla proprietà immobiliare, che oggi non colpisce la rendita, ma spesso un bene fonte di redditi di sostentamento familiare; favorire il finanziamento equitydelle imprese; incentivare l’aggregazione di imprese e, soprattutto, dare un colpo definitivo ai fenomeni di evasione e delusione fiscale che creano livelli di tax gap ignoti ai più evoluti dei nostri partner europei. Un ricco menù che speriamo rivedremo nel corso dell’attuazione della Legge delega….. e poco importa se avverrà “alla zitta”.
Lascia un commento