L’Italia è una Repubblica fondata sul debito. In euro di oggi, dopo la Seconda guerra mondiale la spesa pubblica era di circa venti miliardi. Quest’anno arriveremo a mille miliardi. In settantaquattro anni, è aumentata di cinquanta volte. Nello stesso periodo, il Pil è cresciuto da circa 150 a 1.800 miliardi: grosso modo di dodici volte. Si dirà: siamo più ricchi e possiamo permetterci più Stato. Verissimo, ma il suo peso è passato da poco più del 10% a oltre la metà del prodotto.
Abbiamo avuto periodi di crescita economica tumultuosa (come il boom degli anni Cinquanta) e momenti, rari, nei quali la spesa pubblica sembrava essere sotto controllo (negli anni Novanta, quando siamo entrati nell’euro). L’unica costante è un’altra: il nostro bilancio non è mai stato in pareggio. Nonostante l’articolo 81 della Costituzione, che stabiliva per ogni nuova spesa la necessità di indicare «i mezzi per farvi fronte». Nonostante nel 2012 lo avessimo riscritto, quell’articolo della Costituzione, parlando di «equilibrio tra le entrate e le spese». Abbiamo cambiato sistema elettorale, partiti, personale politico: però non abbiamo mai smesso di indebitarci.
È così anche oggi. Come altri Paesi europei fortemente colpiti dalla pandemia, abbiamo preso i fondi del Pnrr: i trasferimenti (grants), esito di questo momento di solidarietà europea. A differenza di quasi tutti gli altri, abbiamo però anche preso denaro a prestito dall’Europa (loans). In più, ci abbiamo aggiunto trenta miliardi di spesa pubblica tutta nostra. Con un debito pubblico che valeva una volta e mezzo il Pil, abbiamo deciso che solo facendo altro debito potessimo finalmente tornare a crescere.
La situazione è cambiata, radicalmente, in pochi mesi. I venti di guerra hanno compresso le aspettative di crescita. Le stime più ottimistiche per il 2022 postulano che le ripercussioni del conflitto ucraino si limitino ai primi mesi dell’anno: il che appare abbastanza improbabile. Intanto, l’inflazione è di nuovo fra noi: trainata in parte dai prezzi dell’energia, in parte dalle grandi elargizioni in funzione di contrasto alla pandemia in tutto il mondo. Ci sono Paesi occidentali in cui il tasso di inflazione è attorno al 10%: in Italia, è poco più basso, il 7%. Il fenomeno è troppo rilevante perché la politica monetaria non ne tenga conto. Le banche centrali dovranno alzare i tassi d’interesse. Se salgono i tassi d’interesse, aumenta il costo di rifinanziare il nostro debito. Siccome il nostro debito è molto grande, questo «aggiustamento» si farà sentire.
Siamo pronti a fare i conti con tale fenomeno? La politica italiana sembra avere una strategia, per una volta, condivisa: continueremo a chiedere soldi all’Europa. È verosimile che ce li diano? Lo stesso Next Generation EU non è gratis: i Paesi europei dovranno dividersene il peso, o pro quota o con delle imposte comuni europee. Possiamo sperare che ci costerà meno di quanto ci avremo guadagnato, tuttavia non è, nemmeno questo, un pasto gratis.
Se i partiti politici fossero almeno in grado di traguardare le prossime elezioni, comincerebbero a porsi il problema. Dopo la pandemia in molti hanno sostenuto la necessità di aumentare la spesa sanitaria. Con la guerra, si è stabilito un certo consenso per l’aumento delle spese militari. L’aumento del costo dell’energia viene affrontato mettendo in campo risorse pubbliche, e così pure la sfida dei cambiamenti climatici. È comprensibile che le circostanze impongano allo Stato la necessità di farsi carico di nuovi compiti. È sensato pensare che ciò possa avvenire senza che si ragioni anche su quali sono i compiti di cui si può alleggerirlo?
Dopo la parentesi del governo Monti, abbiamo vissuto pensando che la spesa pubblica fosse una coperta che si può sempre allungare. Ma il fatto che lo spread sia ritornato a salire suggerisce che c’è una percezione diffusa che le banche centrali non potranno andare avanti come hanno fatto negli ultimi anni.
Fare politica dovrebbe essere scegliere: quali programmi finanziare, quali iniziative intraprendere, chi deve farsene carico. Indebitandoci, proviamo a non scegliere affatto. Possiamo andare avanti così?
Saggiamente, il primo ministro ha ricordato che il suo prestigio non basta a farne «lo scudo contro qualunque vento». Chiunque vinca le elezioni l’anno prossimo, non avrà il prestigio e le relazioni di Draghi. Il vento sarà presumibilmente più forte. Conviene affrontarlo issando a tutta tela le vele della spesa pubblica?
(questo articolo è ripreso dal sito www.brunoleoni.it ed è apparso sul Corriere della Sera lo scorso 10 maggio)
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