Forse mai come quest’anno, la Festa della Liberazione assume un carattere tanto attuale e originario. Quel 25 Aprile 1945 – data simbolica, quando le truppe nazifasciste cominciarono ad abbandonare Milano e Torino sotto i colpi della Resistenza dei Partigiani e la spinta militare da Sud da parte degli Alleati – segnò di fatto la fine della Seconda Guerra Mondiale e la necessità, per la popolazione italiana, di ripensare a come costruire di nuovo il proprio futuro, in quel momento naufragato fra le desolanti macerie che il conflitto bellico aveva causato.
Ho scritto “costruire” – e non “ri-costruire” – perché, allora, la sensazione forte fu che niente avrebbe potuto essere più come prima. Ciò che era successo in quei sei anni precedenti aveva radici lontane, in una processualità storica di lungo periodo le cui precedenti tappe immediate erano state la Prima Guerra Mondiale e, attraverso di lei, i sommovimenti rivoluzionari che avevano scosso l’intero XIX secolo. Ma ci sono momenti, nella Storia, in cui ci si rende conto che gli accadimenti segnano una vera e propria soluzione di continuità, e che quanto ci si deve apprestare a fare ha solo un’indiretta continuità con le categorie sociali, politiche e culturali del passato.
Oggi, ho l’impressione che si stia percependo la stessa enorme portata di quel particolare tipo di sfide. Viviamo un tempo, in questi mesi, che – per quanto radicato, lungo la catena degli eventi, in ciò che è accaduto nel ventennio appena trascorso – si configura come un’apertura del tutto incerta e imprevedibile verso forme di socialità, di partecipazione e di rappresentanza politica, di economia, di consuetudini quotidiane e di orientamenti normativi e valoriali ancora inimmaginabili e tutte da plasmare. Non mi riferisco tanto alla pandemia del coronavirus e all’emergenza sanitaria che essa ha imposto in praticamente tutti Paesi del pianeta. Il CoviD-19 – come tutti patogeni infettivi – muterà, si cronicizzerà, si indebolirà, e la scoperta di farmaci, prima ancora che di un vaccino, lo renderà una sorta di “coinquilino” da guardare con sospetto e attenzione, almeno sino all’apparizione del prossimo virus. Le attività economiche riprenderanno gradualmente a scorrere, e così le modalità di relazione, di scambio e di tempo libero. Ma chi pensi che tutto possa riorganizzarsi secondo le abitudini e i criteri sinora familiari e conosciuti non solo si illude ma sa lui stesso di ingannarsi.
Nel giro di poche settimane, un nemico “totale” (per quanto invisibile) quanto quello che, settantacinque anni fa, fu la guerra ha distrutto le basi dell’economia mondiale, ha innescato un vero e proprio processo di de-differenziazione sociale (si pensi ad esempio a cosa hanno significato la chiusura delle scuole e la didattica on line: il recupero, da parte della famiglia, di quella funzione educativa tradizionalmente delegata agli istituti formativi) e ha messo definitivamente in discussione quel tipo di globalizzazione che ormai ovunque davamo quasi come oggettiva e per scontata, pur con tutte le grandi disuguaglianze che vi si accompagnavano e che, indolentemente, ci eravamo pressoché di fatto abituati a sopportare. È bastato un virione e un’intera società della comunicazione ha scoperto da un lato quanto fragile sia la “volontà di potenza” coltivata dalle tecnologie informatiche sempre più sofisticate, dall’altro quanto le potenzialità e l’utilizzo di queste ultime possano essere ripensati, attuati e applicati per finalità più inclusive, dialogiche, argomentative, meglio sarebbe dire: “umane”, di quanto non sia stato sino ad oggi.
Come la grande guerra del secolo scorso, anche questa pandemia ha un enorme valore simbolico, che dà un significato appunto del tutto diverso a questo 25 Aprile. Nel dire “valore simbolico”, non voglio affatto sminuire il dolore materiale e concretamente vissuto delle tante persone decedute e delle loro famiglie. Voglio solo indicare una questione che la “liberazione” faticosamente conquistata dalla “distruzione” richiamata sopra pone ora all’ordine del giorno dei governi e dei loro Paesi.
Si tratta del genere di libertà che andremo a (ri-) acquisire. Se ne danno notoriamente due tipi: la libertà individuale e la libertà relazionale (che non coincide con quella “collettiva”, cioè con la possibilità di fare qualcosa ma nei limiti dell’interesse generale, ovvero dei vincoli imposti dalla maggioranza del gruppo, della “comunità” di cui si fa parte). La prima, l’individuale, è quella che, all’indomani della fine della Seconda Mondiale, si è venuta piano piano affermandosi di pari passo con la ripresa economica, con lo sviluppo industriale, con una seppur asimmetrica ma più equa redistribuzione della ricchezza e dunque con una crescente diffusione del benessere. È un “potere di disposizione su di sé” assolutamente cruciale ma che -per suo stesso incedere, se perde di vista lo spazio di libertà e di disposizione altrui – si trasforma facilmente in egocentrismo e nel perseguimento “nonostante tutto” del proprio tornaconto. È la libertà del “vivi e lascia vivere”, dell’attenzione al proprio bisogno e della graduale dismissione della presa in carico, della “cura”, di quello dell’altro, perché magari percepito come troppo distante o dissonante, dunque troppo complesso da maneggiare. Da lì al passo successivo – la libertà del mors tua, via mea, come dicevano i Latini – il confine e labile, confuso. È la libertà ad esempio che, in nome di una logica di sistema e della sua efficienza, ha portato alla scelta – pur di decongestionare i reparti impreparati di terapia intensiva – di ricoverare tanti anziani infettati in case di risposo o RSA ben presto diventate a propria volta focolai di infezioni e luoghi in cui si è morti nella stessa solitudine con cui si moriva nei campi di concentramento. Ed è ancora quella stessa libertà che – pur di fronte ad una ancora scarsissima conoscenza di questo virus – spinge a parlare di “immunità di gregge” pur di ripristinare la funzionalità di una logica economica che deve ricominciare a dar come prima profitti, senza interrogarsi troppo sui costi sociali, ambientali, umani, che quel meccanismo utilitaristico ha provocato.
La libertà relazionale è diversa. Innanzitutto, non è quella comunitaria o semplicemente collettiva, ovvero la possibilità lasciata al singolo di agire ma nel rispetto dei “limiti di compatibilità” del gruppo (dominante) cui egli appartiene. A ben vedere, questo significato – come ho cercato di mostrare sopra (parlando di logica di sistema) – è consustanziale al primo tipo. Essa è piuttosto una libertà responsabile, basta sulla consapevolezza che la mia possibilità di autodeterminarmi dipende in primo luogo dal mio riconoscere all’altro lo stesso diritto, e del mio dovere di comportarmi in maniera che egli non lo perda, perché solo così posso confidare che lui, nei miei confronti, agisca con la stessa attenzione che ho verso di lui. È insomma – come dicevo prima – la “libertà del prendersi cura”: del mio prossimo, del prossemico, sia esso un parente, un conoscente, o uno sconosciuto: il migrante, il disoccupato, l’insofferente per la sua situazione di difficoltà, così come l’ecosistema o la tenuta delle reti di relazioni, delle cerchie di appartenenza e di sostegno, della comunità di cui faccio parte. La libertà responsabile è un paradosso: è la rivendicazione, anche pratica, della mia affermazione, della mia realizzazione, attenzione: non tanto “a condizione che” ma “grazie al fatto che” sia limitata, vincolata, contenuta dalla simmetrica rivendicazione del mio “altro-da-me”. È insomma, al contempo, “libertà” e “costrizione”, è un polo che – in assenza del suo opposto, della sua negazione – non trova legittimità, deperisce, muore. Non è la semplice prevalenza dell’interesse collettivo, in nome del quale troppe volte – insegna la Storia – quello personale è stato schiacciato, annichilito, soppresso, annientato: nei lager nazifascisti così come nei gulag sovietici o nei campi di concentramento etnici. È piuttosto una libertà che si nutre nel vissuto concreto del rapporto con l’altro, nell’interazione, quand’anche essa – si comincia ora a scoprire, con un diverso uso imposto dalle nuove tecnologie informatiche – sia tecnicamente e telematicamente mediata.
Questa libertà responsabile è, a ben vedere, l’unica che incorpora davvero la dimensione della temporalità, e dunque l’unica che credo sia capace di consentire la costruzione del prossimo futuro. Così come il 25 Aprile di settantacinque anni fa essa si palesò innervando e irrorando nuovamente di vitalità una società civile pullulante di progettualità e di speranze, di sacrificio ma anche di prospettiva (che quel sacrificio legittimava e rendeva perciò sopportabile), di idealità e di visionarietà di un’Europa solidale e federata che impedisse finalmente per sempre il ritorno della barbarie (ho in mente adesso le pagine indimenticabili che Norberto Bobbi scrisse nel 1973, come prefazione del Manifesto di Ventotene di Altiero Spinelli e Ernesto Rossi, sull’anima autenticamente europeista di tanta Resistenza italiana), altrettanto è ora indispensabile per edificare una quotidianità davvero nuova, per costruire – sulle ceneri di quella appena passata – una nuova Unione Europea che sia al contempo federazione e nazione, procedure democratiche e spirito di appartenenza ad un comune sentire e ad un destino condiviso. L’acredine con cui populisti e sovranisti stanno oggi vivendo questi primi, per quanto difficili, passi di nascita (ancora una volta evito di proposito il prefisso “ri-“) non è solo il portato della loro attuale marginalizzazione politica. È anche il segno dell’inevitabile riproporsi – loro malgrado – di quella Libertà che oggi essi tanto temono e che si rifiutano, per il 25 Aprile, di festeggiare.
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