Alcune recenti casi (GKN, Gianetti Ruote) hanno suscitato reazioni dei media e della politica contro le decisioni delle imprese di cessare l’attività comunicando via mail ai dipendenti il loro licenziamento.
Sui problemi che queste vicende hanno sollevato, abbiamo intervistato il Prof. Costa.
Si è lamentata la scomparsa dell’imprenditore, una persona con cui dialogare e scontrarsi, sostituito da fondi impersonali ed imperscrutabili. Ma l’azienda familiare non era ritenuta un limite del sistema imprenditoriale italiano? Non si sollecitava la quotazione in borsa, la separazione tra re management? Quale è il giusto atteggiamento?
Le imprese che vogliono stare sul mercato globale devono crescere, irrobustirsi dal punto di vista manageriale e finanziario con gli strumenti adeguati ai mercati in cui operano, senza rincorrere modelli astratti di capitalismo. Senza mitizzare l’impresa familiare che ha dato e dà esempi eccellenti di crescita e modernizzazione accanto a esempi poco edificanti di incapacità di evolvere e costruire il proprio futuro.
Viene sempre richiamato l’insufficiente livello di investimenti stranieri nel nostro paese, si ricercano strumenti per incentivarli semplificando e snellendo ma oggi sembra che vengano solo a rubare lavoro: davvero c’è un atteggiamento, diciamo così, predatorio?
Gli investimenti diretti esteri in Italia sono prevalentemente di tipo sostitutivo. Acquisiscono aziende già esistenti e operanti. Magari quelle aziende familiari bloccate, di cui ho appena parlato. Più scarsi sono quelli di tipo addizionale o come si dice “green field”. Sono questi di cui abbiamo più bisogno. Gli incentivi da mobilitare per gli investimenti esteri sono gli stessi che servono per gli investimenti nazionali. E grosso modo coincidono con le riforme previste dal Pnrr
Contro le delocalizzazioni si sta mettendo insieme un pacchetto di vincoli ed ostacoli che limitano ulteriormente la libertà di impresa ed accrescono gli impacci burocratici. Quale è la sua opinione in proposito?
Non parlerei di delocalizzazioni nel caso di imprese che partecipano a filiere globali e devono per questa ragione essere multilocalizzate. Solo così possono essere vicine ai clienti e ai fornitori. Misure che dichiarano di voler attirare investimenti esteri e nello stesso tempo rendono difficile l’exit hanno scarse possibilità di raggiungere lo scopo.
Irrigidire le modalità di realizzazione di un disinvestimento in un’epoca in cui i vistosi sintomi di ripresa del ciclo economico si accompagnano a cambiamenti rapidissimi di prospettive strategiche, tecnologiche e occupazionali non incoraggia i cambiamenti di cui imprese e lavoratori devono darsi carico.
Abbiamo numerosi esempi di fallimentari tentativi di tenere in vita situazioni insostenibili. Una qualche spiegazione, se non proprio giustificazione, di questi improbabili salvataggi poteva essere trovata fino a qualche mese fa nella mancanza assoluta di alternative occupazionali. Non può più essere invocata oggi che più settori e imprese denunciano difficoltà a coprire svariate posizioni lavorative.
Cosa serve per promuovere la competitività delle nostre imprese?
Prioritaria dovrebbe essere allora una politica che incentivi la mobilità geografica del lavoro assieme alla crescita e alla riconversione delle competenze professionali, obiettivi difficilmente perseguibili con strumenti quali il reddito di cittadinanza che ha qualche merito ma continua a essere privo delle misure volte a intervenire sulla “impiegabilità” di coloro che ne beneficiano. In assenza di questi strumenti, bisognerebbe evitare con cura di dare l’impressione che più che attirare nuovi investimenti diretti esteri delle multinazionali si voglia cercare di tenerle prigioniere degli investimenti già fatti. E questo sarebbe negativo non solo perché la percezione della praticabilità e della semplicità dell’exit è un potente facilitatore della decisione di un’azienda di entrare in un investimento ma soprattutto perché abbiamo bisogno di imprenditori motivati a giocare un ruolo attivo nel trovare e costruire con continuità nel territorio in cui investono le basi di rinnovati vantaggi competitivi. E non è questo il caso di chi licenzia con un sms.
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