Cerco, prima di analizzare il nuovo Decreto Rilancio, di fare un po’ di conti, “all’ingrosso”, nella mia testa. In Italia ci sono quasi 400 miliardi di stipendi pubblici e di pensioni. Quelli, fortunatamente per chi ce l’ha, non hanno risentito della crisi da coronavirus. Poi ci sono circa 1000 miliardi di valore aggiunto prodotto dall’economia privata e da lavoro dipendente. E poi ci sono poco più di 350 miliardi che afferiscono al lavoro autonomo. In tutto circa 1550 miliardi di valore aggiunto prodotto dalla macchina Italia a cui si aggiungono 200 miliardi di pensioni. Considerato che una buona parte del valore aggiunto prodotto non va a redditi netti ma a imposte e contributi si può ipotizzare che ciò che resta sia intorno al 52%. Facendo l’ipotesi che il lavoro autonomo abbia perso il 70% nei mesi di marzo e aprile e perderà il 50% fino a fine anno e che invece l’altra componente privata abbia perso rispettivamente il 60% e perda poi il 10% fino a fine anno si arriva ad una contrazione di reddito netto intorno a 150 miliardi. Ciò è quanto, calcolo giusto più o meno, che gli italiani si troveranno di meno nelle tasche nel 2020 rispetto al 2019. Quindi senza considerare alcun potenziale aumento fra i due anni. Non dico quello che succederà al soggetto Stato considerando la maggiore spesa e la minore entrata. Se fossimo stati uno stato isolato, tipo Argentina, avremmo seguito la sua strada. Il default. Siccome invece siamo ancora, per fortuna e con buona pace dei sovranisti, dentro una “confederazione europea” qualche possibilità di tenuta in qualche modo, e forse con grandi sacrifici, l’avremo.
E veniamo al nostro decreto. Questo intervento va visto, inseme al primo, sempre all’interno del tema “ristoro”. Non rilancia nulla. Non poteva rilanciare nulla. Abbiamo la possibilità di avere un bazooka, non di liquidità ma di sussidi al reddito e spesa pubblica, di 80 miliardi? Bene che andassero, salvo una parte di spesa per il sostegno all’emergenza sanitaria in senso stretto più altre attività a questo connesse, a ristorare i 150 miliardi che gli italiani hanno perso o perderanno. Inutile parlare, come vedo fare oggi su alcuni giornali, che si tratta per lo più di spesa corrente e che è una distribuzione a pioggia. Non poteva, e non doveva, che essere così. Chi ha perso soldi deve essere ristorato per il proprio bene e per la tenuta del paese. E allora i due decreti dovevano chiamarsi “Cura” e “Ristoro” lasciando stare la parola rilancio. Su quella siamo al nulla.
Bene 80 miliardi, mettiamo 70 togliendo alcune spese legate alla lotta al coronavirus, sono circa la metà di quanto perso. Non è tutto ma non è poco. E qui viene il primo problema. Se ristoro è, concentrati o a pioggia, i soldi devono andare solo a chi ha perso e non a pioggia nel mucchio. Alcune, molte per la verità, spese sono di questo tipo, ma molte non lo sono. Rendere i soldi alle imprese che hanno crediti con lo Stato è una misura salutare e giusta. Ma in questo momento le risorse vanno concentrate su chi ha perso. Solo lì devono andare. I poveri vanno aiutati sempre e comunque. Ma ora vanno aiutati i poveri che hanno perso da questa crisi. E’ importante sostenere le start up e sostenere la produzione di videogiochi. Ma non in un decreto “ristoro”. E così via. Insomma un decreto che ha una funzione e poi gli si attaccano misure e misurette per “far vedere che lo Stato c’è” ma senza un quadro chiaro di politica industriale complessiva è solo una perdita di concentrazione sull’obiettivo primario e quindi, nella sostanza, una perdita di denaro pubblico.
Faccio un altro esempio. Nel decreto si parla nell’art.30 di un certo “Patrimonio destinato”. Sembra di capire un Fondo per intervenire nelle imprese per rafforzarne capitale e strategia. Attraverso l’intervento pubblico. Non si sa come, su cosa e perchè interverrà. Ma cosa c’entra con un decreto ristoro? Nulla. E un povero cittadino, ma penso anche un parlamentare o chiunque altro si interessi di spesa pubblica, non può capire l’asse strategico del Governo in tema di politica industriale sommando qua è là, senza alcun quadro, il sostegno alle start up, l’intervento del patrimonio destinato per il sostegno alle imprese, l’istituzione di un comitato di pronto intervento per la consulenza alle imprese in crisi e così via.
E qui allora viene il secondo punto. Passata la cura e il ristoro, che ripeto per il 90% forse non poteva che essere fatta così a parte una serie di cose inutili come il contributo vacanza o il contributo bici, c’è bisogno nel paese da subito di un decreto “Rilancio”. Ma non l’ennesima spippolata di articoli messi uno sopra all’altro. Questa volta non basta la parlantina da avvocato di Conte. Vogliamo sentire che dietro c’è una forte conoscenza del paese, nei suoi meccanismi di funzionamento economico, ma anche in quello dello Stato come imprenditore-amministratore e come regolatore. E poi vogliamo che sia chiaro il dove vogliamo andare e con chi. Ci vuole una visione del futuro per cominciare a costruirla. Ma siccome chi la costruisce non è lo Stato da solo occorre che questa visione sia costruita con i sistemi veramente democratici e partecipativi a nostra disposizione e che sia condivisa da opinione pubblica e corpi intermedi che poi sono i soggetti collettivi su cui si fonda la realizzazione effettiva della visione. Insomma non basta più un decreto. Il Governo, e per questo occorrerebbe un governo di larga intesa democratica per non far sentire nessuno, o almeno il meno possibile, esentato o lasciato fuori da questa opera anche morale, di ricostruzione del paese, deve chiamare tutti al rilancio e non fare semplicemente un decreto rilancio. Perchè appunto il rilancio dopo questa crisi epocale, in un paese disastrato e non solo economicamente come l’Italia, o è opera collettiva, come fu il durissimo ma esaltante dopoguerra per i nostri padri e nonni, o non sarà.
E il rilancio dovrà puntare su tre cose precise.
Il primo è un grande Piano ventennale di investimenti pubblici. Che metta sul piatto almeno 15 o venti miliardi in più ogni anno. Non ripeto cose dette da sempre e da più parti, ma siamo stanchi di vedere esondare fiumi e produrre disgrazie, di vedere ponti che cadono, di avere sistemi tranviari e ferroviari ancora da completare e, in generale, di non avere in Italia tutte le possibilità tecnologiche digitali al più alto livello e per tutti.
Il secondo è un sistema di imprese forti, per capitale, organizzazione e contenuti tecnologici e scientifici, che sia in grado di mantenere l’Italia nel novero delle grandi nazioni industriali ma anche di andare “oltre” in settori e mercati ad oggi poco frequentati. In Italia ci sono imprese, lavoratori e strutture universitarie e di ricerca in grado di farci fare un “salto quantico”, parafrasando il linguaggio della fisica. E’ su questo obiettivo che occorre impegnare le migliori risorse del paese. Senza ovviamente disperdere le aree su cui tradizionalmente “ siamo presenti e con dignità”.
Il terzo è quello di rendere più facile e più tempestivo il “fare”, di ogni tipo e di ogni soggetto, ovviamente contrastando, anche con l’ausilio di strumenti e procedure innovative e tecnologicamente supportate, le pratiche corruttive e affaristiche. La semplificazione è questo. Semplificare i percorsi di chi fa e rendere più difficili quelli di chi contrasta. Lo Stato e le sue procedure vanno riviste alla luce di questo principio. Guai a pensare che, in un paese corrotto come l’Italia, la semplificazione possa essere considerato un “bomba libero tutti senza regole”. Sarebbe un disastro.
Ed infine, last but non least, per il rilancio ci vuole un’altra politica. Sta finendo, spero, l’idea che le elité anche quelle politiche, vadano sostituite dal primo che passa. Perchè così è più democratico. Altra cosa è il giusto ricambio e l’abbattimento delle barriere all’ingresso. La forza e la legittimazione dei gruppi dirigenti è essenziale per portare avanti una collettività. La democrazia diretta è, alla fine, inconcludente e poi anche antidemocratica nella sostanza. La politica e le istituzioni vanno ricostruite. Con un controllo dal basso incessante e con un giudizio di mandato che sia severo. Ma ridateci, per favore, i leader politici. Quelli veri, non quelli capaci solo di twittare ogni giorno e in ogni occasione in attesa di smentirsi con il twitter del giorno successivo.
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