Ha fatto bene Draghi ha lanciare il messaggio di un ulteriore allentamento della politica monetaria in Europa. L’inflazione è quieta, non dà alcun segnale di crescita, l’attività produttiva sta decelerando, colpendo anche la locomotiva tedesca, e i debiti, sia pubblici che privati, continuano a crescere in tante aree del continente. E allora perché non abbassare i tassi di interesse? Inoltre, come è solito fare con messaggi stringati, Draghi ha ripetuto l’oramai famoso “whatever it takes” che prelude alla possibilità di continuare, o addirittura rafforzare, il Quantitative Easing che consente l’acquisto di titoli di stato da parte delle Banche centrali al fine di mantenere basso il costo dell’indebitamento pubblico.
Si tratta di due azioni integrate tese al rilancio dell’economia e al sostegno della gestione del Bilancio pubblico per gli Stati, specialmente quelli, come l’Italia, oberati da un alto livello di indebitamento.
Le previsioni per l’economia europea diventano certamente più rosee, a prescindere dalla istantanea crescita dei valori delle azioni in Borsa che potrebbe dare un contributo con l’effetto reddito conseguente, ma come purtroppo è accaduto spesso in questi anni non è detto che le condizioni a contorno favorevoli si risolvano necessariamente in un impulso significativo alla crescita reale. Per quanto ci riguarda, da incalliti keynesiani educati fin da piccoli al fenomeno della “trappola della liquidità, siamo propensi a pensare che accanto e di più della politica monetaria conta per la crescita una forte e decisa politica fiscale. Ed in particolare una politica di investimenti pubblici in deficit mirata a ridare fiato alle imprese e nello stesso tempo a rafforzare e innovare l’infrastrutturazione materiale e immateriale del paese. Con investimenti legati al governo e alla manutenzione del territorio e della mobilità sostenibile e con incentivi alla formazione, alla ricerca e alla innovazione nell’area delle imprese produttive.
In questi anni di bassa crescita dell’economia e di abbassamento del livello degli investimenti pubblici sul Pil il paese e anche il resto d’Europa hanno decelerato vistosamente nel livello di infrastrutturazione necessaria a mantenere alta la produttività del sistema e anche la qualità di vita dei cittadini anche in vista delle criticità che derivano dai cambiamenti climatici in atto. E allora occorre invertire la tendenza al disimpegno degli Stati e rilanciare un grande piano di investimenti, magari sostenuti con la garanzia del Bilancio Europeo e quindi fuori dell’area di indebitamento dei singoli paesi, che possa portare l’Europa a competere per forza strutturale e capacità di innovazione con i grandi continenti che competono nel Mondo.
Quando si parla di “riforma” dell’Europa è difficile non pensare che l’obiettivo prioritario debba essere questo e non tanto le piccole beghe fra sovranisti e austeristi che hanno da tempo smesso di pensare in grande per l’Europa del futuro.
Se traguardiamo questo obiettivo, grande ma possibile, alle forze politiche che si contendono il consenso in Italia appare tutto disarmante. Il dibattito politico alto rimane stretto fra un populismo di destra e di movimento, che non sa andare oltre le rivendicazioni di una popolazione frustrata e rancorosa stremata da una crisi economica troppo lunga e di cui non si vede la fine, e un centrosinistra in “knock out” teso più a ritrovare alcune sue tradizionali, ma oramai fragili, radici e incapace di ridarsi una nuova dimensione politica. Una dimensione che non deve attardarsi più di tanto nel ricercare le radici quanto nel capire il bisogno di politica che c’è oggi di fronte ai grandi megatrend che cambiano, in qualche caso sconvolgendone gli equilibri, gli assetti economici sociali e territoriali del nostro mondo.
Ed ecco allora le crisi, crescenti, dovute ai cambiamenti climatici. Per ora soltanto intraviste ma che lasciano pensare ad un forte impatto sulla vita degli uomini nella terra. Poi c’è la variabile demografica, con la crescita esponenziale in alcune parti del globo e l’invecchiamento in altre aree con epicentro sull’Europa. Quindi c’è il fenomeno della Globalizzazione e della Finanziarizzazione dell’economia con le ricadute notevoli sui lavoratori e sulla tenuta delle comunità locali. Ed infine l’evoluzione dirompente della tecnologia che apre scenari nuovi, affascinanti e nello steso tempo distruttivi, nei nostri tradizionali modelli di vita.
Da questa analisi, pur schematica, appare evidente che c’è uno scarto evidente fra Offerta politica e Necessità di politica. Manca un’area politica che rifugge il populismo e nello stesso tempo rifugge, considerandolo tendenzialmente marginale, il ritorno ad una sinistra delle certezze. Del ritorno all’antico. A quell’idea un po’ retrò e incapace di misurarsi con la contemporaneità del “ma come era bello prima quando….”.
C’è allora bisogno di una offerta politica diversa. Che sappia misurarsi con i megatrend dell’oggi, cercando in primo luogo di capirli, prima che di giudicarli. Di una offerta che qualcuno può trovarsi a definire di “centro” fra il populismo e la sinistra ma che non ha nulla del centro tradizionale, cattolico e moderato, tipico della tradizione italiana. E’ invece è un centro solo in quanto rifugge gli estremismi e le esagerazioni verbali e concettuali ma con un radicalismo riformista e ambientalista che si pone all’altezza della sfida delle criticità dell’oggi. Un centro che sa far tesoro dello strumento del mercato, laddove e quando funziona, dello Stato, meglio se sburocratizzato e snello, e delle tante comunità e istituzioni intermedie che rendono ricco e variegato il sistema sociale di un paese avanzato.
Quindi occorre qualcosa di più e di più alto del partito di centro di un centrosinistra che si ritrova ad essere pensato, di nuovo dopo tanti anni, col trattino separatore (-), di diverso da un partito ponte fra un centrodestra finito e un centrosinistra in crisi o di un ritorno nostalgico alla vecchia, cara e rassicurante Democrazia Cristiana.
Il problema è che non si vedono all’orizzonte soggetti individuali e collettivi capaci di tentare questa sfida. Non resta che aspettare tempi migliori? Per quanto ci riguarda vorremmo almeno cominciare a dare dei segnali di esistenza. Che l’attesa non sia solo passiva. Ma i tempi sono duri.
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