La guerra continua
In vista del primo anniversario di guerra, si stanno intensificando gli attacchi russi nelle zone del Donbass. Nel sud, Zaporizhzhia è da giorni sotto assedio, e Vulhedar sta per ora resistendo a caro prezzo di uomini e mezzi. A nord, i russi tornano ad avanzare, fino a incombere su Siversk. A Bakhmut si combatte corpo a corpo. Su Kharkiv non passa giorno che non cadano missili indiscriminatamente su obiettivi civili e militari, mentre Kherson è già stata dolorosamente ceduta.
L’apparente stallo di inizio inverno è servito a riorganizzare il fronte russo, che ha mobilitato 300.000 unità ufficiali (Kiev parla di 500.000) e annuncia la grande offensiva.
A contrastare questo attacco, stanno arrivando in Ucraina nuove armi di ultima generazione, inviate dai 44 paesi del Gruppo di Ramstein, così come deciso nell’ultimo vertice del 20 gennaio.
Le comunicazioni sull’invio delle armi sono state volte, fin dall’inizio del conflitto, a delimitare il confine del sostegno per la difesa del paese aggredito – in base alle norme del diritto internazionale – senza mai oltrepassare la soglia verso la co-belligeranza.
Questa soglia si sta però via via assottigliando, con l’invio di dispositivi sempre più potenti: i Leopard 2 tedeschi e gli Abrams americani, con i missili a lunga gittata di 151 km (capaci quindi di arrivare su territorio russo), e il sistema di difesa anti-aerea Samp-T italo-francese, volto a neutralizzare droni, missili e aerei russi[1]. Ma non è ancora finita. L’Ucraina chiede agli USA anche i caccia F-16, per adesso negati, perché il passaggio dai carri armati agli aerei rappresenterebbe un ulteriore salto di qualità dell’armamentario, ed è evidente come passare da rifornire strumenti di terra a quelli di aria aumenta il rischio di slittare dalla difesa all’attacco.
Se il fronte continuerà a infuocarsi, anche questo diniego potrebbe cadere, come quello precedente sugli Abrams, perché in tutti questi mesi gli ucraini hanno imparato la lezione: “I rifiuti di oggi sono le concessioni di domani”[2].
Affinché quel drammatico confine dalla difesa all’attacco, dall’aiuto alla co-belligeranza non venga superato, ci si affida ad una flebile, quasi timida comunicazione. Infatti, se da una parte si enfatizza lo scontro, con le immagini dei bombardamenti, le accuse reciproche di violazione del diritto in guerra, le roboanti affermazioni di vittoria di quella o quell’altra battaglia, ad accompagnare questa intensificazione di sostegno militare per quantità e qualità di armi stanno dichiarazioni come quella del cancelliere tedesco Scholz, il quale riferisce di essere stato rassicurato per telefono da Zelensky circa l’uso difensivo dei Leopard 2, o come quella congiunta dei ministri della difesa francese e ucraino, nella conferenza stampa del 31 gennaio, sempre a sancire la natura difensiva di questi aiuti.
Ma appunto, si tratta di deboli messaggi, che poco rassicurano davanti all’incedere di quella che la Russia sta proclamando come una “soluzione finale”.
Inoltre la mobilitazione russa e le decisioni di Ramstein seguono di pochi giorni il presunto fallimento del tentativo di accordo avanzato dagli USA: tentativo di cui aveva parlato pochi giorni fa il giornale svizzero Neue Zurcher Zeitung, prontamente smentito sia da Washington sia da Mosca (non da Kiev …). Non voglio ricorrere al proverbiale detto excusatio non petita, accusatio manifesta, con le parafrasi del caso. Ma è normale che si annuncino gli accordi fatti, e si neghino quelli naufragati. Per quello che si è visto nel corso degli ultimi mesi, c’è da credere che gli Stati Uniti – che non hanno mai interrotto la comunicazione con Mosca – abbiano provato ad evitare quello che si prefigura come un vero e proprio massacro a partire dal prossimo marzo, e il fatto che non ci siano riusciti non può che seriamente allarmare.
Non c’è materia per sbizzarrirsi in inutili dietrologie circa le maggiori o minori responsabilità della mancanza di accordo finora. La guerra è da mesi entrata nella fase di ferrea necessità che blocca ogni volontà alternativa; quella nella quale, secondo Simone Weil, la guerra va avanti da sé, in una spirale perversa di ritorsioni sanguinose, dove si moltiplicano i massacri e ogni tregua, ogni accordo possibile, si allontana[3]. In questa fase, nessuno può permettersi di compiere il primo passo perché sarebbe travolto dalle conseguenze interne. Sia Putin sia Zelensky sarebbero i primi a cadere per cedimento. Ma sia Putin sia Zelensky si trovano ora a dover porsi obiettivi diversi, e molto più impegnativi, rispetto a quelli originari: non solo il Donbass, ma buona parte dell’Ucraina per Putin; non solo il ritiro delle truppe russe, ma la ricomposizione dell’integrità territoriale, compresa la Crimea, per l’Ucraina. Se così è, la guerra andrà avanti molto a lungo. O come scrive Lucio Caracciolo, la pace è finita[4].
Il mondo davanti alla guerra
La guerra in Ucraina è destinata a cambiare la storia dell’Europa e del mondo, e non in meglio. Ha già compromesso, se non inesorabilmente neutralizzato, lo “spirito di Helsinki”, nato nel 1975 per stabilire una qualche forma di convivenza pacifica tra Europa occidentale e paesi del Patto di Varsavia, e coltivato nel 1990 per fondare l’Europa post-Guerra Fredda. Sta segnando una faglia nel cuore dell’Europa, tra i paesi occidentali che hanno posizioni più articolate e i paesi dell’Est e del Nord, tra cui le ex Repubbliche Baltiche, molto più determinati a ridimensionare se non proprio a infierire duramente sulla Russia. Ha rimesso in discussione le gerarchie dell’Unione europea, riducendo il peso politico della Germania, senza delineare leadership alternative, e proprio nel momento in cui la Brexit ha definitivamente spostato l’asse britannico verso Washington.
Sarebbe il momento di riprendere il processo di costituzionalizzazione dell’Unione europea, interrotto all’inizio del millennio per colpa delle crisi economiche, ma una scelta così impegnativa dovrebbe essere intrapresa nel mentre il sovranismo sta diventando maggioranza nel parlamento e nel Consiglio europeo. Più realisticamente, l’Unione europea si attesterà ancora su posizioni di difesa dei propri confini – con buona pace di chi chiede un maggior coordinamento sulle politiche di governo dell’immigrazione – e contenimento dei problemi economici derivanti dalla crisi energetica. Sul fronte atlantico, la guerra in Ucraina ha riconsegnato centralità agli Stati Uniti, usciti con le ossa rotte dall’Afghanistan, ma da quel che si vede gli USA non hanno ancora deciso come spenderla. La Nato sembra orientata a cogliere l’occasione per umiliare la Russia, l’alleato più temibile della Cina; Biden dà segnali di maggiore cautela, ma non pare avere la forza sufficiente per imporre un accordo, non soltanto tra i due belligeranti, ma anche dentro la sua amministrazione. Confidare nel Presidente USA sembra ora l’unica possibilità per evitare la degenerazione del conflitto in guerra mondiale, ma è davvero troppo poco davanti alle stragi che si consumano sul campo bellico.
Vie di pace
Che fare, di diverso, rispetto alla sola risposta militare? È la domanda assillante da ormai un anno.
Tornando dal viaggio in Africa, Papa Bergoglio ha detto di essere pronto a incontrare sia Putin sia Zelensky; ha ammesso di non essere ancora andato a Kiev perché fin qui non ci sono state le condizioni; ha ricordato di essersi recato all’ambasciata russa subito dopo l’inizio della guerra, e di aver ricevuto una risposta cortese ma agghiacciante dal ministro degli esteri Lavrov: “vediamo più avanti”; sappiamo che i contatti proseguono, soprattutto per quanto riguarda gli aspetti umanitari, come per esempio la facilitazione dello scambio di prigionieri o anche dei corpi dei militari morti. Potrebbe il Vaticano assumere un ruolo capace di sbloccare “la ferrea logica della guerra”? Non c’è rimasto troppo tempo da qui alla catastrofe.
L’ONU pare impossibilitato a fare alcunché, dal momento che non può autorizzare alcun intervento militare. Ma è del tutto inerte o agisce in qualche forma? Il Consiglio di Sicurezza ha affrontato il tema il 14 gennaio scorso. La responsabile degli affari politici e di peace-building Rosemary DeCarlo avrebbe detto nell’occasione: “Non c’è alcun segno della fine dei combattimenti. La logica che prevale è quella militare, con pochissimo spazio per il dialogo in questo momento. Ma tutte le guerre finiscono, e anche questa finirà”. La vice-ministra degli esteri ucraina è intervenuta con queste parole: “È chiaro che non c’è spazio per il compromesso con il male. Perché se l’Ucraina smette di combattere, morirà. Il mondo come lo conosciamo morirà. Se la Russia interrompe la sua aggressione, la guerra finirà. È semplice”. Il rappresentante permanente russo alle Nazioni Unite ha ribattuto: “L’obiettivo (dell’operazione speciale) è garantire che non ci siano minacce per la Russia provenienti dal territorio ucraino e che cessi la discriminazione della popolazione di lingua russa. Se ciò può essere raggiunto attraverso negoziati pacifici, siamo pronti a impegnarsi altrimenti lo raggiungeremo con mezzi militari”.
In questa situazione, il fatto che l’ONU continui a rappresentare lo spazio fisico in cui il confronto verbale – per quanto anch’esso altamente conflittuale – tra i due paesi in guerra prosegue non è da sottovalutare. Ma perché il confronto formale si trasformi in dialogo potrebbe passare troppo tempo, come quello del mugnaio di Freud che non riesce a produrre farina in tempo utile per sfamare la gente, se le diplomazie di tutto il mondo non decidono di investirci per davvero.
Il 24 febbraio il popolo della pace torna a mobilitarsi. Sotto l’insegna di Europe for Peace, quella che ha guidato la manifestazione del 5 novembre a Roma, il messaggio più forte viene da Assisi: la marcia della pace unirà Perugia alla città di San Francesco proprio nella notte tra il 23 e il 24 febbraio, a un anno esatto dalle prime esplosioni dell’invasione russa. Ma le manifestazioni si svolgeranno in molte altre città italiane ed europee. Che i movimenti per la pace, pur inascoltati fino a qui se non addirittura bistrattati, non si stanchino di far sentire la propria voce è una buona notizia. Una società civile internazionale, che non è né organizzata né istituzionalizzata per il fatto che il mondo è ancora assai lontano dall’essere governato da strumenti democratici, può ora soltanto riempire le piazze e alzare la voce: una forza morale che può alimentare qualche dubbio, non più di questo ma meglio di niente.
Tuttavia, ciascuno di questi tre soggetti evocati da ultimo – il papa, l’ONU, la società civile – rappresentano potenzialmente quel Terzo, che Bobbio richiamava nel 1995 come “assente”, ma figura necessaria a dirimere le controversie e mettere fine ai conflitti[5]. Tutti e tre appaiono ora molto deboli davanti all’imperativo della guerra, ma non è detto che prima o poi non riescano a incidere di più, quando la guerra apparirà sempre di più “una via bloccata”, come sempre Bobbio scriveva nel 1984[6].
[1] Per gli aggiornamenti sull’invio delle armi, si può consultare la rivista online Analisi Difesa. In ultimo, un redazionale del 2 febbraio 2023, Aerei da combattimento, munizioni a lungo raggio, carri armati e altre armi per l’Ucraina.
[2] P. Haski, Il dibattito sulle armi in Ucraina si svolge con inedita trasparenza, Internazionale, 1 febbraio 2023.
[3] S. Weil, Non ricominciamo la guerra di Troia, FarinaEditore. 2019.
[4] L. Caracciolo, La pace è finita. Così ricomincia la storia in Europa, Feltrinelli 2022.
[5] N. Bobbio, Il terzo assente. Saggi e discorsi sulla pace e sulla guerra, Sonda, 1995.
[6] N. Bobbio, Il problema della guerra e le vie della pace, Il Mulino, 1984.
Salvatore Scarola
solo un grande movimento di massa ci può salvare, in Ucraina si scontrano 2 imperialismi e il “pollo da mangiare” siamo noi.
l’Europa non ha saputo costruire le basi per una federazione politica con una sola voce, unico esercito, unico popolo e adesso rischiamo di venire travolti ed essere divisi per sfere di influenza.. un tremendo salto indietro nel tempo.
il papa è una voce importante, ma senza un movimento internazionale rischia di rimanere voce inascoltata
Alessandro
Noi cittadini abbiamo diritto alla pace ad ogni costo. È proprio così impossibile dare rango, dignità a questa opinione in Italia e nel mondo?
Purtroppo sembra di sì, l’ultima volta che in Italia così non fu, avvenne circa 40 fa, ai tempi dei missili a Comiso, quando c’era il PCI di Berlinguer e La Torre. Poi non fu più così, venne il PDS di D’Alema premier che autorizzò l’azione militare contro la Serbia e il PD che appoggiò o restò silente in ogni azione successiva in Afghanistan, in Iraq, in Libia. Pertanto, finché l’attuale squinternato partito di …sinistra (?) erede – rappresentante di se stesso e della sua classe dirigente, portatore della sola idea del “politically correct “ ad ogni costo – NON ASSUMERÀ UNA POSIZIONE ANTI BELLICISTA, mai potrà essere veicolato con efficacia il messaggio di PACE.
Lucia
Condivido in toto. Una delusa di sinistra ❗
Michelangelo Tumini
Io credo che non si possa chiedere ad un capo di Stato come Selensky eletto nel 2019 di accettare che Putin, con tutte le sue motivazioni geopolitiche, invada il suo territorio, prima con una operazione speciale volta a sostituirlo, con una propria testa di lLegno. E dopo con una vera e propria guerra di invasione. Chiedergli di arrendersi perché il nemico e più forte ed ha anche la bomba atomica. La vera marcia della Pace va fatta contro Putin, senza alcun distinguo, perché lui è affatto diverso dai Presidenti Usa che per invadere l’Iraq o altre nazioni in Vietnam, in Cile e/o Argentina. Invece ci si sta agitando per impedire a Selensky di difendersi e ci si indigna nel ritenere assurdo che lui chieda armi per difendersi. Ma quando Hitler invase la Polonia e quel Paese chiese aiuto, gli altri Paesi stettero zitti e subito dopo invasero la Francia, lanciarono missili su Londra e poi andarono verso la Russia. La reazione fu l’autodifesa, ma anche la richiesta al resto del mondo, ma in particolare agli USA, che si mossero soltanto quando i Giapponesi che appoggiavano Hitler, bombardarono le loro navi a Pearl Habour. Ora credo che le manifestazioni vadano fatte contro Putin senza se e senza ma, e chiedere nel contempo la riconversione dell’industria bellica in contemporanea in tutti i Paesi aderenti all’Onu.