Da dicembre infuria la battaglia su Bachmut. Capoluogo della regione del Donec’k, ora la città è diventata il fronte dove russi e ucraini combattono casa per casa. Poche ore fa il governo di Kiev ha deciso di evacuare i minori dalla città, segno che le prossime ore saranno terribili. Il governo ucraino non vuole cedere all’assedio russo (guidato dal Gruppo Wagner), e la Russia non vuole rinunciare al principale avamposto del Donbass, anche impiegando armi più pesanti.
Per l’Ucraina, impedire che la Russia sfondi nel Donec’k è vitale; la concentrazione su Bachmut avviene in attesa che arrivi la nuova fornitura di armi dai paesi NATO, in particolare i Leopard tedeschi e il sistema anti-aereo italo-francese. Forse, chissà, anche gli F-16, che per adesso Biden ha negato, ma che alcuni dicono siano già oggetto di trattativa per tempi più maturi.
La sensazione è che, dopo il primo anniversario di guerra, e dopo l’insabbiamento dell’iniziativa diplomatica della Cina a Monaco e poi in Russia, ora tornino a parlare solo le armi, in preparazione della battaglia di primavera. Secondo alcuni osservatori, gli Stati Uniti stanno lavorando per mettere fine al conflitto nei prossimi mesi, e dunque potrebbero anche inviare i cacciabombardieri per respingere i russi oltre confine e vincere la guerra. Perché, si dice, gli USA si preparano al loro vero fronte di guerra, quello contro la Cina, che non casualmente – anche lei intervenuta per provare a fermare la guerra in Ucraina – sta tornando a provocare sul versante indopacifico e a Taiwan. E’ quanto sostiene anche Noam Chomsky, il quale interpreta il ritiro frettoloso americano dall’Afghanistan nel 2021 proprio in chiave di riorientamento di mezzi e uomini su altri fronti di guerra (anche secondo lui la Cina, piuttosto che l’Ucraina) e ricorda come a dicembre 2021 Biden aveva firmato il National Defense Authorization Act, volto a creare una catena ininterrotta di Stati sentinella armati dagli USA che si estende dal Giappone e dalla Corea del Sud nel Pacifico Settentrionale fino all’Australia, alle Filippine, alla Thailandia e a Singapore a sud e all’India sul fianco orientale della Cina: “insomma una manovra di accerchiamento della Cina”[1].
Ma davvero il conflitto russo-ucraino avrà vita breve? E davvero sarà sostituito da quello che si preannuncia come la nuova guerra fredda?
Il bilancio di questa guerra in vite umane è spaventoso. Secondo un articolo del New York Times del 21 febbraio, che cita le parole del comandante delle forze armate norvegesi Kristoffersen, dall’inizio dell’invasione russa avrebbero perso la vita 200.000 soldati russi e 100.000 ucraini, a cui dovrebbero essere aggiunti 30.000 civili.
Sono numeri terribili, che non hanno avuto eguali nelle altre guerre scatenatesi dopo il secondo conflitto mondiale. Eppure se ne parla poco, anzi per niente. Come se dessimo per scontato che ciò accada. O forse, piuttosto, perché preferiamo rimuovere gli effetti distruttivi della guerra dal dibattito pubblico sulla guerra stessa, per parlare di altro: degli avanzamenti sul campo per l’uno o l’altro fronte, delle mosse della NATO, di quelle della Cina, dei sondaggi sull’invio delle armi nei paesi europei.
In un recente libro, Il posto della guerra, lo studioso di relazioni internazionali Vittorio Emanuele Parsi[2] sostiene che, in difesa della libertà e della democrazia del “Nuovo Occidente” di cui facciamo parte, si debba essere disposti a pagare un prezzo molto alto, come ci insegna la lezione dell’Ucraina che resiste proprio per i valori da noi conquistati con due guerre mondiali. Soltanto con la vittoria dell’Ucraina saràebbe possibile ristabilire l’ordine internazionale basato sul diritto: ordine internazionale che Parsi definisce “liberale”, perché messo nero su bianco in quel breve lasso di tempo trascorso tra la fine della seconda guerra mondiale e l’inizio della Guerra Fredda. Solo perché non si era ancora concretizzata la polarizzazione ideologica tra blocco NATO e blocco sovietico, la Carta dell’ONU ha recepito nei valori e nel linguaggio il portato più avanzato del pensiero politico moderno, rendendolo universale. Ma universale non lo è nella realtà perché, dice Parsi, soltanto regimi democratici possono garantire rispetto delle regole e rifiuto della guerra come mezzo di risoluzione dei conflitti. Oggi, si starebbe creando un nuovo blocco di regimi autoritari (Cina e Russia) che va contrastato per evitare che abbiano il sopravvento in un nuovo ordine mondiale; l’aggressione russa all’Ucraina sarebbe soltanto il primo evento di uno scontro politico, economico e militare che i paesi autoritari stanno ingaggiando contro le democrazie.
Davanti a questo pericolo, e quindi allo sfondo del successivo conflitto tra USA e Cina, l’Ucraina è lo spartiacque. Perciò è un dovere sostenere l’Ucraina ad ogni costo, per respingere l’aggressione russa, che è un’aggressione all’Occidente e a tutto l’ordine internazionale liberale. La tesi di Parsi ha il merito di dichiarare apertamente la vera posta in gioco di questa guerra e gli obiettivi dell’Alleanza atlantica, di cui l’Italia fa parte: si tratta di una proxy war (guerra per procura) che gli ucraini combattono per conto di tutto l’Occidente e che devono vincere sul campo, per ridimensionare la Russia e quindi la sua alleata più forte, la Cina, che gli USA hanno individuato come il nemico del nuovo secolo e millennio. La tesi è argomentata in modo intelligente e persuasivo, senza risparmiare critiche allo stesso blocco occidentale per come ha gestito negli anni passati la sua primazia mondiale, ma omette alcuni elementi essenziali: 1) parlando del prezzo da pagare per la libertà, non dice mai se questo prezzo abbia un limite, una proporzionalità da tenere di conto, a partire dalla perdita di vite umane; 2) pare dare per scontato che la guerra per la libertà vinca sempre, come è accaduto nelle due guerre mondiali del Novecento; 3) considera inesistente il rischio del ricorso alle armi nucleari, riabilitando la strategia MAD (mutual assured destruction) che ha funzionato da deterrente durante la Guerra Fredda.
L’assenza di tutti questi elementi insieme inficiano fortemente l’intera argomentazione. Non penso che oggi, in pieno ventunesimo secolo, possiamo fare a meno di avere uno sguardo morale sul massacro che da un anno devasta il territorio ucraino, a maggior ragione se dovessimo condividere il fatto che quei morti ucraini sono morti per noi. Certo, possiamo aggiungere che è il popolo ucraino a voler resistere, a voler determinare il proprio destino per la libertà e l’autodeterminazione, anche accettando di farlo in nostra vece (come Zelensky ha più volte affermato nel rivolgersi a noi, chiedendo più armi). Ciò non toglie che noi non possiamo lasciarci scivolare la responsabilità che portiamo nel contribuire a prolungare la guerra e quindi il cumulo di morti. Fino a quando, e fino a quanti? Andando a guardare quali sono state le delegazioni occidentali che si sono recate a Kiev in questi mesi, in ultimo il premier italiano Meloni (il maschile è d’obbligo) con i ministri dell’Economia e del Made in Italy, si può pensare che l’Occidente ritenga di poter risarcire il popolo ucraino, dopo le armi, con gli aiuti economici per la ricostruzione. Certo, questo è il minimo. Ma chiedo se moralmente questo possa bastare, possa soddisfare il debito contratto, e soprattutto se questo assolve dal preoccuparci del numero di morti, qualunque esso sarà alla fine di questa guerra. Inoltre, la guerra sarà vinta: questo è l’assunto. Su quale base ne siamo convinti? Parsi cita Clausewitz, il generale prussiano secondo il quale la capacità di resistenza è determinata da due fattori inseparabili: l’entità dei mezzi a disposizione e la forza di volontà. E sarebbe quest’ultima a fare la differenza nella guerra in Ucraina; per questo gli ucraini sono destinati a vincere. E’ una convinzione purtroppo indimostrabile, da qui alla fine della guerra, in condizioni storiche molto diverse da quelle delle precedenti guerre mondiali, quando gli Imperi centrali nel primo caso e il Terzo Reich nel secondo si erano posti obiettivi molto al di sopra delle loro possibilità. Inoltre, la vera variante rispetto alle guerre mondiali è la presenza dell’arma nucleare, in possesso di USA, Russia, Cina, Israele e Francia. Perché l’Occidente non è intervenuto direttamente contro la Russia, come è accaduto in Iraq nel 1991, quando Saddam Hussein invase il Kuwait, e in Serbia nel 1999, quando Miloševič stava massacrando il popolo kosovaro? Perché nessuno può permettersi di scatenare una guerra nucleare. Il nucleare rappresenta ancora quel Rubicone che nessuno dice di voler varcare, per primo. Ma c’è, è usato come minaccia, in una fase in cui si sta regredendo rispetto ai trattati di non proliferazione (l’ultimo atto è la sospensione russa di START), aumenta la voglia di sperimentare il nucleare tattico e c’è molta meno attenzione e controllo pubblico sul tema. Insomma, la tendenza verso la quale ci stiamo avviando è quella non soltanto di un ritorno ad un nuovo equilibrio del terrore, spostato verso il Pacifico (verso lo scontro USA-Cina), ma di una tentazione di addomesticamento dell’impatto nucleare, in termini di limitazioni territoriali e ambientali: un uso del nucleare che non implichi distruzione globale e quindi servibile in futuri conflitti. Non abbiamo dunque più nessuna rassicurazione che il nucleare non verrà usato. Su questo punto servirebbe una seria e profonda rivisitazione di tutto quel pensiero antinuclearista che si fondava sulla insostenibilità assoluta della guerra nucleare e occorrerebbe un pensiero politico adeguato a sostituire la strategia della pura deterrenza.
La guerra in Ucraina si sta delineando sempre di più, ogni giorno che passa, come uno spartiacque per il (dis)ordine internazionale. Tutti gli indicatori dicono che il “vecchio” realismo politico si sta perfettamente adeguando alle nuove condizioni politiche, economiche, tecnologiche e militari, in un modo tale da riabilitare l’uso della guerra per la risoluzione delle controversie internazionali laddove il diritto non sia stato efficace a farlo. Non altrettanto, purtroppo, possiamo dirlo per la via dei negoziati e della pace, ostruita dai veti attivati all’interno del Consiglio di Sicurezza dell’ONU e dallo squilibrio esistente tra gli interessi nazionali delle attuali “superpotenze”. Dovremmo sapere che cosa non ha funzionato nei tentativi francese e tedesco di evitare l’invasione russa, così come dovremmo sapere perché si sta così frettolosamente archiviando la proposta cinese, sia da parte americana che russa. Insomma, dovremmo sforzarci di trovare nuove strade alla diplomazia, e non rassegnarci all’idea che “la pace è finita”[3]. Anche perché, nel mondo globale, nuclearizzato, minacciato dai cambiamenti climatici e dall’esaurimento delle risorse, il rischio è che il richiamo a Clausewitz[4] debba essere rovesciato: non più la guerra ad essere la continuazione della politica con altri mezzi, ma la politica a diventare la continuazione della guerra economica, energetica, tecnologica, e in ultima istanza militare.
L’Ucraina è il terreno su cui si sta misurando tutto questo. Come terminerà questa guerra, se sul campo o su un tavolo negoziale, definirà il modo in cui le controversie internazionali saranno risolte. Nel primo caso vorrebbe dire poter ben fare a meno degli organismi e degli strumenti istituzionali; nel secondo, vorrebbe dire saper riaffermare il primato del diritto sulla forza. E il diritto si basa sul riconoscimento delle parti.
Non è una differenza da poco. Per questo, occorrerebbe rispondere a Il posto della guerra con Il posto della pace. Cominciando a pensare di dover iniziare a risparmiare vite, perché a noi, qui, tutte le vite importano. Riprendendo lo slogan delle donne iraniane che ci piace tanto, ma ha un significato preciso: donna, vita, libertà, perché vita e libertà stanno insieme. Ricordando che ci sono sfide comuni su cui un accordo tra tutti è necessario (la crisi climatica, i rischi pandemici), e che le guerre per la conquista di territori sono in questo senso anacronistiche e obsolete.
In Ucraina fermiamoci, prima della “battaglia finale”.
[1] N. Chomsky, Perché l’Ucraina?, Ponte alle Grazie 2022.
[2] V.E. Parsi, Il posto della guerra e il costo della libertà, Bompiani 2022.
[3] L. Caracciolo, La pace è finita. Così ricomincia la storia in Europa, Feltrinelli 2022.
[4] K. von Clausewitz, Della guerra, Mondadori 1982.Ucraina:
Roberto
Trovo singolare che nell’articolo non sia mai citato Putin. Invece giustamente viene ricordato l’Iran dove la guerra non c’è ma non mi sembra le cose vadano benissimo. Forse la pace senza la libertà non è la soluzione e gli Ucraini l’hanno capito perfettamente.