Le prime impressioni hanno sempre la forma di un’immagine, e quella che mi è venuta in mente – dopo la conferma dei numeri della partecipazione e delle percentuali conquistate da ciascuno dei tre candidati – è quella di un’onda anomala che, dopo essersi abbattuta con forza, piano piano si ritira, lasciando sì macerie, facendo tirare un respiro di sollievo ai superstiti che adesso si rimetteranno al lavoro per rimettere in sicurezza il litorale ma avendo anche irrimediabilmente modificato la fisionomia della costa.
Le Primarie del PD sono state un fatto importante. Quasi due milioni di persone hanno scelto – per i tanti motivi – di scendere in strada e di far la fila ai seggi. La partecipazione – qualunque cosa la spinga – comporta sempre fatica e impegno, non basta la contrazione del muscolo di un dito per cliccare un bottone digitale. Non solo, ma ciò che ha aumentato il valore politico di questa prova di vera democrazia è stata l’enorme manifestazione milanese contro il razzismo e per i diritti umani del giorno prima (circa 300.000 persone). Il PD e la Sinistra italiani hanno dimostrato che non sono affatto morenti come le giulive sirene gialloverdi, con contorni di nero più o meno sfumato, si affannano a dire.
Sono state un evento cruciale anche perché hanno lanciato un messaggio chiaro, anche qui dalle molteplici motivazioni ma accomunate da una parola d’ordine: è ora di finirla con la deriva ricorsiva alle divisioni ed è il tempo di provare a definire un orizzonte comune – conflittuale ma condiviso – verso il quale muovere. Sta tuttavia esattamente qui il senso di quella metafora iniziale.
L’onda anomala è stata il così detto “renzismo”. È una parola di cui diffido, come tutto quelle che finiscono in “-ismo”, perché si tratta di ottuse ideologie. Come tale – come “-ismo”, fatto di spregiudicatezza, di spavalderia, di yes man/woman, di eccessivi personalismi – ha fatto macerie. Ma l’esperienza “renziana” è stata anche – negli ultimi anni e tuttora in Italia − la sola visione strategica di lungo respiro. In fondo, queste Primarie, hanno costantemente avuto, in quel personaggio e in quella sua impostazione, un invitato di pietra. Al di là delle tenui differenze di contenuto e di programma – (e a volte mi chiedo se si possa parlare davvero in questi termini: da decenni il PD e suoi predecessori non fanno più veri Congressi, come tutte le altre forze politiche) – i veri distinguo sono stati nell’atteggiamento verso quell’eredità e verso le possibili attuali alleanze politiche
La candidatura di Giachetti/Ascani è stata di forma e di bandiera. Quella di Martina – uomo umile, onesto e intelligente – ha scontato la sua identificazione con la drammatica fase di transizione, quella in cui quell’onda si è abbattuta. L’unico che sia sembrato poter impersonare il ruolo dei superstiti pronti a ricostruire è stato Nicola Zingaretti. Con un però: i superstiti – nel caso di onde anomale – sono anche e soprattutto quelli che se la sono data a gambe senza pensar troppo agli altri. Zingaretti vince a piene mani con un elettorato di ritorno che, ora al sicuro, torna a chiedere le chiavi di casa. Il 4 Marzo 2018, Leu prende, per la Camera, 1.109.198 voti. Molti di questi hanno votato Zingaretti. Molti di loro – in quel drammatico bivio della Democrazia italiana del 4 Dicembre 2016, quello che sancì la strada verso il populismo – quella sera brindarono alla sconfitta del PD, dopo aver fatto ufficialmente campagna elettorale contro.
Non è tuttavia solo questione di revisioni istituzionali (aspetto ancora da 4 anni la fine di quel periodo di 6 mesi che D’Alema disse sarebbero stati sufficienti per una vera Riforma Costituzionale democratica; non specificò in effetti l’anno di riferimento, e D’Alema è un uomo preciso). È questione di proposta politica e di tipo di alleanze ad essa confacente. E questione insomma di quale tipo di riformismo, e – di nuovo alla metafora iniziale – di quanto nel PD si sia oggi consapevoli che quell’onda anomala ha fatto macerie ma ha modificato profondamente il paesaggio.
Zingaretti – dalle prime analisi elettorali del voto alle Primarie – vince ovunque ma stravince nel Centro-Nord e nei grandi centri urbani. A Torino, luogo di TAV, la partecipazione al voto – rispetto a quella delle Primarie precedenti – raddoppia. Il messaggio che gli arriva è quello dei ceti produttivi, non di quelli più in difficoltà o assistenziali. Visti gli attuali equilibri politici “immaginati” dai sondaggi, l’asse che gli si propone non è con il M5S − come gli sussurrano agli orecchi gli aruspici à la D’Alema, Bersani, Letta, insomma: la “Ditta” – ma con il Centrodestra, che vuol dire Lega, ovvero quella di quota 100, quella dei migranti reclusi in mare o respinti nei lager libici, quella di Steve Bannon e della “Santa Alleanza” sovranista e antieuropea, quella, infine, di Marine Le Pen. Sono quegli stessi ceti anche corporativi o, sarebbe meglio dire, che la crisi economica dell’ultimo decennio ha reso ancor più chiusi, attenti al proprio utile e sensibili alla filosofia del “pochi, maledetti e subito”. Non sono però i sussidi quelli che servono per riattivare occupazioni e lavori buoni ma politiche attive di (re-) inserimento e, solo in ultima istanza, aiuti economici a chi comunque mostra di non farcela. Servono riforme strutturali dei servizi per l’impiego di cui per primi gli imprenditori, come nei Paesi del Nord Europa, siano chiamati a responsabilità (così che costi loro meno accelerare la riassunzione di un in-/disoccupato piuttosto che il su intrappolamento in stage e tirocini sottopagati). Servono infine Autonomie Locali forti ma nel quadro di uno Stato Centrale altrettanto solido e unitario piuttosto che autonomie rinforzate in ordine sparso, che finiscono per essere le autonomie dei più forti e dei ricchi ai danni dei più deboli.
Nei prossimi mesi, vedremo insomma se il nuovo PD avrò compreso sia le ragioni profonde di quell’onda anomale, sia com’è mutata strutturalmente la geografia dei territori che sono stati colpiti.
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