Un primo dato che salta immediatamente agli occhi – sulla base delle più recenti indagini Istat (Marzo 2021) – è il contraccolpo demografico che, dal 2020 ad oggi – la pandemia ha provocato.
Nel corso del 2020 la popolazione regolarmente residente in Italia diminuisce di circa 384.000 unità, pari al -0,6%, con decrementi più accentuati nel Nord (-0,7%, rispetto a tassi di variazione sempre negativi ma molto più contenuti fatti registrare negli anni precedenti) e, in particolare, nelle regioni più colpite dall’epidemia quali la Lombardia e l’Emilia-Romagna. È in buona sostanza come se, da un anno all’altro, fosse letteralmente sparita un’intera città medio-grande come Firenze, senza contare – stando ai più recenti studi dell’Institute for Health Metrics and Evaluation dell’Università di Washington (http://www.healthdata.org/news-release/covid-19-has-caused-69-million-deaths-globally-more-double-what-official-reports-show) – che i decessi nel mondo (tra morti avvenute “a domicilio” e non censite e quelle causate indirettamente per congestionamento delle strutture sanitarie e difficoltà a contenere gli esiti di altre gravi patologie) sarebbero il doppio (in totale quasi sette milioni), in Italia quasi 55.000 in più. La pandemia ha mietuto soprattutto le generazioni più anziane (in più dell’80% dei casi) ma si è rivelata poco “democratica” non soltanto dal punto di vista anagrafico ma anche da quello sociale, se è vero che ad esempio negli Stati Uniti (ma il fenomeno appare facilmente generalizzabili a tutte le altre aree del pianeta) essa ha interessato soprattutto le classi e i ceti meno abbienti, con contagi e tassi di letalità molto più elevati e adesso con tassi di copertura vaccinale di gran lunga inferiori https://www.journalofhospitalmedicine.com/authors/max-jordan-nguemeni-tiako-ms-0). Nel nostro Paese, una tale incremento dei deceduti – per il quale Istat stima un contributo per morti di CoviD parli al 70% (76.000 unità, pari cioè al 10% delle scomparse totali) – non potrà far altro che aggravare l’ormai pluriennale contrazione demografica della popolazione, ma questa diminuzione specialmente delle coorti di età più avanzate solo in apparenza potrebbe tradursi in un nuovo innalzamento del tasso di sostituzione demografico naturale italiano.
Se infatti volgiamo l’attenzione alle conseguenze che il Sars-Cov-2 ha avuto sui matrimoni, sulle unioni civili e sul tasso di natalità, ci accorgiamo come le cose non siano affatto promettenti, e con grandi potenziali ricadute sia sul piano economico, sia su quello dei sistemi di welfare. Nel corso del 2020 i matrimoni, a partire dallo scorso Marzo, diminuiscono del -47,5% rispetto all’anno precedente, e questo in particolar modo per quelli religiosi (-68,0%) ma anche per quelli civili (-29,0%) e per le unioni di fatto (-39,0%). La contrazione è acuta nella prima fase dell’emergenza sanitaria – in concomitanza con la prima ondata del Marzo-Maggio 2020 – si attenua, pur mantenendo tassi negativi, durante la fase estiva di transizione, per riprendere, anche se ad una velocità della diminuzione meno accentuata di quella iniziale, durante la fase della terza ondata (Settembre 2020-Marzo 2021). Certo hanno pesato grandemente i divieti di cerimonie in pubblico, quelli di spostamento da una regione all’altra e verso l’Estero e quelli di assembramento. Il fatto è però che questo crollo non solo va ad aggravare la sistematica tendenza alla contrazione che si registra ormai da almeno due decenni ma sembra avere ripercussioni sia sul piano della predisposizione psicologica e culturale all’istituzionalizzazione dei legami di coppia, sia su quello della natalità, sia infine su quello della qualità dei rapporti di coppia stessi.
Nel corso del 2020 risultano infatti iscritti alle anagrafi comunali italiane circa 400.000 bambini, con una diminuzione rispetto all’anno precedente del -3,8% equivalente a -16.000 unità (una contrazione, questa, mai registrata dall’Unità d’Italia ad oggi). In questo caso il calo – anche stavolta generalizzato – è stato particolarmente acuto nelle regioni del Nord Italia(-4,6%) ma pure in quelle aree meridionali del nostro Paese che hanno da sempre fatto registrare tassi di fecondità mediamente più elevati di quelli del resto della nazione (-4,0%). Per anni questo processo di denatalizzazione è stato compensato dalla maggiore prolificità dei residenti di origine straniera ma primo, tale loro stile genitoriale è andato via via erodendosi – con l’incedere dell’integrazione socio-culturale e la graduale acquisizione da parte delle coppie straniere di stili di vita più secolarizzati e occidentali – e secondo, la pandemia ha sempre più costretto alla riduzione sia dei flussi migratori interni, sia di quelli da fuori Italia (in media -33,0% nel 2020). Le potenziali ricadute di queste trasformazioni di lungo periodo non possono quindi che configurare – nel medio-lungo periodo – enormi sfide per il nostro sistema di welfare: una probabile accentuazione – all’indomani della messa sotto controlla dell’epidemia – del processo di invecchiamento della popolazione, con un nuovo allungamento della vita media e una correlata diffusione di patologie tardo-invalidanti; di pari passo, una parallela diminuzione delle coorti in entrata nei mercati del lavoro – peraltro altrettanto messi a dura prova dalla prolungata e non definitiva fase di emergenza sanitaria, dalla quale pare usciremo definitivamente solo fra molto tempo – con una futura ulteriore restrizione della base imponibile indispensabile a (co-) finanziare politiche sociali, occupazionali, previdenziali, sanitarie e per la famiglia.
L’insieme di questi cambiamenti delinea il contesto macro-strutturale all’interno del quale gli individui e i loro gruppi di appartenenza vivono, si rappresentano la situazione e scelgono le strategie di azione da intraprendere nel perseguimento dei loro obiettivi. L’agire sociale è da sempre d’altronde solo in parte il prodotto di riflessione e di valutazione razionale. In larga misura esso risponde piuttosto a moventi emotivi e di “ragionevolezza” cognitiva. È dunque importante – per interrogarsi sulle sfide che si profilano e per predisporre misure di intervento efficaci per governare al meglio le problematiche sociali che si presenteranno – considerare sia gli stati d’animo che stanno accompagnando la difficile fase che stiamo attraversando, sia le aspettative che il sentire personale – nel quadro di quello collettivo, a propria volta da esso alimentato – genera a plasmare i comportamenti nella sfera del privato, delle relazioni sentimentali, del rapporto con il proprio corpo e con il proprio spessore psicologico.
Nonostante il 76,2% di un ampio campione di Italiani che Istat ha intervistato a fine 2020 circa gli atteggiamenti e le opinioni durante la seconda ondata di CoviD-19 descriva le relazioni con i familiari con parole di significato positivo quali “serene”, “buone”, “tranquille”, l’8,4% ricorre a vocaboli problematici (“tesi”, “preoccupati”, “agitati”) e il 14,9% ad aggettivi neutri (“normali”, “come al solito”, “uguali”) (https://www.istat.it/it/archivio/257010). Per il 3,2% della popolazione – circa un milione di persone – il virus ha messo a dura prova la convivenza familiare. Quasi il 60% ha ridotto gli incontri con i parenti non abitanti nella loro stesa casa, aumentando contatti telefonici e video-chiamate, e questo soprattutto per le donne, per gli anziani e nelle regioni del Sud.
Secondo un’indagine del Dipartimento di Scienze Biomediche della Humanitas University (https://www.humanitas-sanpiox.it/news/questionario-impatto-covid-italia/), coloro che dichiarano peggiorati i propri rapporti con il partner ammontano al 20,0% del campione (2.400 casi, rappresentativi della popolazione italiana), quelli che denunciano crescenti difficoltà nella relazione con i figli al 13,0%. Il 14,0% degli intervistati dice di aver provato – nei mesi dell’emergenza sanitaria – molta più fatica psico-fisica a svolgere il proprio lavoro (il 70% degli studenti parla di un forte calo della concentrazione), mentre l’8,0% ha aumentato il consumo di alcolici e nicotina, il 30% ha smesso di fare attività fisica, il 10,0% ha iniziato a far uso di antidepressivi (il 19% di chi già vi ricorreva parla di un aumento della loro assunzione) e il 40% ha fortemente ridotto o sospeso la propria vita sessuale.
Il fenomeno appare particolarmente allarmante non solo fra gli adulti (stando ai dati di un recente studio dell’Associazione Italiana di Andrologia, sei uomini su dieci hanno accusato, nella prima fase della pandemia, disfunzioni sessuali, e nel 24% dei casi essi si sono rivelate perduranti nel tempo: https://www.ansa.it/canale_saluteebenessere/notizie/lei_lui/andrologia/2021/02/25/pandemia-nemica-del-sesso-per-6-uomini-su-10_0777d387-72dd-4be4-9471-daaeb443960e.html) ma anche e soprattutto fra le ragazze e i ragazzi. Un’indagine recentemente condotta da Fondazione Foresta ONLUS di Padova su un campione di 5.000 studenti del quinto anno di scuola superiore nelle tre regioni del Veneto, della Campania e della Puglia ha rivelato che nel biennio 2020/2021 ben il 15,0% dei ragazzi (rispetto all’8,0% del biennio precedente) ha ammesso o di non essere più sicuro del proprio orientamento sessuale o di essersi scoperto omosessuale, e questo con un’incidenza percentuale più accentuata fra le giovani (d’altronde notoriamente più avvezze ad una “sorellanza” dalle modalità più intime rispetto a quelle della “fratellanza” maschile) rispetto a quanto non si registri fra i loro coetanei (https://www.repubblica.it/salute/2021/05/04/news/sesso_on_line_e_solitudine_come_sono_cambiate_le_abitudini_dei_teenager_con_covid-299330013/). La relazione quotidiana – autenticamente interpersonale – ovvero tendenzialmente vissuta in condizioni di compresenza fisica – con la diversità, in questo caso sessuale, è una condizione indispensabile per un più equilibrato processo di presa di coscienza della propria identità personale, nelle sue dimensioni pulsionali così come in quelle emotive e di conferimento di senso al proprio modo di essere. E questo a prescindere poi dall’esito altrettanto processuale – e nel tempo potenzialmente cangiante – di tale dinamica di auto-/etero-riconoscimento. La digitalizzazione degli scambi, della comunicazione, dei rapporti interpersonali – quale quella per molti mesi imposta dalle restrizioni per prevenire il diffondersi dei contagi – ha dunque alterato tale circostanza esistenziale, contribuendo così a lasciare i ragazzi e le ragazze in una sorta di camera di compensazione, di vuoto di socialità, nei quali i confini che marcano la propria autoconsapevolezza in rapporto all’“altro-da-sé” tendono a diventare più sfumati, e a consegnare il soggetto – peraltro in una fase delicata del proprio sviluppo quale l’adolescenza e la prima giovinezza – al difficile compito di marcare, spesso in maniera immaginativa ed auto-suggestiva, le forme e i contenuti del proprio più profondo percepire privato e interiore.
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