Colpita dall’epidemia Firenze sembra oggi irriconoscibile, svuotata com’è delle migliaia di turisti che fino a pochi mesi fa la affollavano spingendo ai margini la quotidianità degli abitanti. A Firenze esistono da tempo due città, quella dei turisti e quella dei cittadini. Sono due città che si sovrappongono – peraltro parzialmente – nello spazio ma sono lontanissime nelle loro quotidianità, che anzi entrano molto spesso in conflitto. Quella dei turisti e quella dei fiorentini sono due nazioni, per usare una definizione di Disraeli, primo ministro e scrittore inglese della stagione vittoriana, che vivono distanti e separate nella stessa città. Ciò che le lega nel caso di Firenze è l’economia del turismo, forte e probabilmente insostituibile componente del PIL della città. I residenti, del resto, sono ormai meno di un decimo dei turisti che ogni anno arrivano a Firenze. Per l’intreccio stretto tra passato storico e presente, per i diffusi immaginari collettivi che discendono direttamente dal Grand Tour e la sfrenata commercializzazione dell’eredità rinascimentale il tessuto della civitas fiorentina si è slabbrato. Anche se l’urbs, la città fisica, appare sempre in buona forma.
La domanda di città dei visitatori schiaccia quella degli abitanti e lascia il segno non solo sull’economia ma anche sulla quotidianità. Lo stesso centro storico è ormai privo di attrazione per i residenti che lo frequentano solo in rare occasioni per lo shopping, per gli uffici comunali o per banche. La Firenze turistica, da alcuni definita un parco a tema rinascimentale, è del resto stata costruita per soddisfare la domanda e le aspettative dei turisti che, sognandola, vengono a visitarla sempre più numerosi. E’, per dirla con il lessico del marketing, una città fatta su misura per il consumatore a cui offre le immagini, le esperienze e le narrazioni desiderate ed attese. Firenze è vissuta attraverso un immaginario consolidato da secoli ed alimentato continuamente dal marketing turistico.
Il domani che ci attende è incerto non tanto per la mancanza di idee quanto per il peso che ha l’economia del turismo sulla vita della città e, come qualcuno afferma, sulla sua stessa sopravvivenza. La speranza è che, come accadde dopo la grande peste trecentesca, torni una spinta rinascimentale.
La grande letteratura si è spesso occupata delle epidemie da quella del V secolo a.c. di Atene sino a quelle della contemporaneità. Ho perciò ripreso in mano Tucidide, Boccaccio, Manzoni, Defoe, Camus, solo per fare alcuni nomi. Ciò che mi ha colpito in queste narrazioni è che nessuna affronta il problema del dopo. Probabilmente perché l’epidemia e la paura inchiodano nel presente e non si riesce ad immaginare con lucidità un dopo. È la storia che ci ha narrato il “dopo”. La peste – la morte nera – che decimò la popolazione europea nel ‘300 ebbe come “dopo” il Rinascimento, reso anche possibile dall’alleggerimento demografico e dalla ripresa delle città. È in questo “dopo” che appare la città ideale, rappresentata nelle grandi tele di Urbino e Baltimora. Per la prima volta la città è pensata ed immaginata prima di essere costruita diversamente da ciò che avveniva nel medioevo quando la città cresceva per inerzia senza regole o progetti.
Anche oggi abbiamo difficoltà a riflettere sul domani che ci attende e che dobbiamo costruire. Anche noi ci sentiamo inchiodati in un presente di cui non possiamo neppure prevedere il termine. Il nostro dopo ci appare confuso. Sul domani sono in pochi ad azzardare previsioni ed ancora meno sono quanti avanzano proposte realistiche. Tornano anche, senza suscitare entusiasmi, i progetti che parlavano di sostenibilità o resilienza. Come rimettere in moto l’economia e come immaginare e costruire una città più flessibile e capace di meglio rispondere a desideri e bisogni è ancora vago, persino per gli addetti ai lavori.
L’immaginario del Grand tour – su cui si è costruito il duraturo e vendibile mito di Firenze – appare anche nei progetti per il dopo epidemia. Coesistono, riuscendo talvolta ad annullarsi reciprocamente, la necessaria spinta verso il nuovo di una grande e più vivibile Firenze e le controspinte in nome di un passato perfetto da preservare. Il filosofo tedesco Georg Simmel poteva scrivere all’inizio del ‘900, a margine del suo personale Grand tour in Italia, che Firenze, proprio per la sua straordinaria bellezza accumulata nei secoli, emanava un odore di morte in quanto la città rifiutava i veri cambiamenti. La perfezione raggiunta, infatti, non poteva essere migliorata. Cambiano con rapidità incredibile esperienze, vissuti, miti e aspirazioni. Probabilmente, la definizione di Città porosa data a Napoli da Walter Benjamin nel 1924 può essere trasferita a Firenze dove è sufficiente spostarsi di poche centinaia di metri per passare da una realtà all’altra, dal mondo dei turisti a quello dei residenti, da un’esperienza all’altra, persino da un secolo all’altro. La conoscenza e la progettualità diventano perciò particolarmente difficili e richiedono saperi ed approcci nuovi per dar conto di una realtà fluida e spesso ingannevole. La sfida per il dopo è ardua ma nello stesso tempo necessaria.
L’incitazione di Lefebvre a “Pensare l’impossibile per allargare il campo del possibile” può sembrare, mezzo secolo dopo il suo ’68, datata e forse utopica. Oggi, dopo la tragica esperienza dell’epidemia che ha cambiato le nostre città ed anche noi stessi, potremmo riformularla come “Pensare il possibile per realizzarlo”.
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