Qualcuno diceva che le cose si cominciano davvero a comprendere quando in gran parte si sono compiute, e lasciano intravedere nuovi orizzonti problematici verso i quali avviarsi e sui quali interrogarsi, nel tentativo di capire se c’è alla fine un senso generale in base al quale migliorare le previsioni e avere maggior presa politica sulla realtà.
Con le elezioni europee del 26 Maggio scorso -le più importanti dall’inizio della storia elettorale della Comunità e poi dell’Unione Europea -alcune tendenze sembrerebbero disvelarsi. L’onda antieuropeista -incarnata dai partiti nazional-sovranisti di estrema destra -pare essere stata arginata, con il suo 23,3% di consensi (pari a 175 seggi su 571) e nonostante il determinante apporto dell’elettorato di due grandi Stati fondatori: la Francia e l’Italia. Il Partito Popolare, benché perda in consenso (23,8%) e in numero di seggi (179), rimane la famiglia politica maggioritaria, grazie in particolare alla Germania, mentre quella Socialista Democratica conferma la sua storica china al ribasso, con percentuali ad una cifra in Francia in parte compensati dall’affermazione in Paesi come l’Olanda, la Spagna e il Portogallo. Le vere sorprese sono tre: il successo dei Liberaldemocratici (14%, 105 seggi), soprattutto quello dei Verdi (il 9,2%, 69 seggi, con punte a due cifre in Germania) e, praticamente, la scomparsa della Sinistra radicale che -rispetto alla tornata elettorale del 2014 e alle successive nazionali, ad esempio in Grecia, Spagna e Francia) -si attestano intorno al 5%, con meno di 40 seggi.
Questi risultati hanno -in parte giustamente -fatto tirare un respiro di sollievo a quanti sono convinti (me compreso) che la prospettiva europea sia l’unica in grado di garantire un futuro prospero -economico, sociale e culturale -alle popolazioni del nostro continente, contro il rischio di un’involuzione “medioevale” e il ritorno di fenomeni di massa quali la povertà e l’autoritarismo. E tuttavia, davvero la strada che si para davanti alle nuove élite politiche europee ha la forma, se non di un rettilineo, di un tracciato curvilineo comunque a direzione costante? O ciò che si dipanerà sarà un susseguirsi di bivi di fronte ai quali molto dipenderà certo dalle circostanze sempre mutevoli in un mondo così complesso come l’attuale ma soprattutto dalla capacità di affrontare alcune contraddizioni strutturali che caratterizzano quasi dai loro primi passi la Comunità e le istituzioni europee?
Nel solco del detto di quel qualcuno richiamato all’inizio, proviamo a fare un esercizio di reinterpretazione dei più recenti dati pubblicati appena un qualche mese prima delle elezioni di Maggio da Eurobarometro, in occasione delle sue rilevazioni demoscopiche trimestrali sugli orientamenti culturali e politici dei cittadini dei 28 Paesi dell’Unione Europea e sul loro sentimento nei confronti delle sue istituzioni (European Parliament Flash Eurobarometer. First Results, Eurobarometer, December 2018; Closer to the Citizens, Closer to the Ballots, Eurobarometer, Spryng 2019). La domanda non è tanto se quei dati fossero stati capaci, col senno del poi, di suggerire previsioni più accurate poi confermate o meno dal responso delle urne. È piuttosto se una rilettura prospettica e meno ingabbiata nel fascino del grande numero sintetico possa aiutarci a ipotizzare verosimilmente se e quali “divaricazioni stradali” imporranno, in un futuro relativamente prossimo e vicino, decisioni e strategie capaci di convogliare -e in quale senso -la storia a venire dell’Unione Europea.
Un aspetto cruciale riguarda l’atteggiamento euroscettico. Nonostante la grave crisi economica e finanziaria inauguratasi alla fine del decennio scorso; malgrado poi il deterioramento della congiuntura dovuta alla Presidenza Trump negli Stati Uniti (con l’inaugurazione di una decisa politica protezionistica) e al successivo voto britannico per l’abbandono dell’Unione Europea; a dispetto infine dell’intensificarsi dei flussi migratori, specialmente a partire dal 2015, l’’atteggiamento nei confronti della UE è tornato a salire -nel complesso dell’opinione pubblica dei 28 Stati-sin dal 2011, anno apicale della recessione globale, passando dal 50% degli intervistati (un campione di 26.000 persone, dunque con un potenziale di rappresentatività statistica tendenzialmente limitato) per i quali l’appartenenza del proprio Paese era giudicata una “cosa buona”, al 61% di chi oggi la considera appunto in maniera favorevole. Naturalmente, il dato complessivo nasconde, per sua stessa natura, un gamma molto variegata di sfumature nazionali. I più accondiscendenti sono i Paesi dell’Europa Centrosettentrionale (Olanda, Svezia, Danimarca, Germania ma anche Irlanda e Spagna), i più critici quelli dell’Europa occidentale (Francia, nel pieno della crisi dei Gilet Jaune, e la Gran Bretagna) e quelli del Mediterraneo orientale, ovvero la Grecia e l’Italia, Paese, questo, in cui chi manifesta un giudizio favorevole è il 36%, con un 49% di chi pensa che la membership sia una cosa né buona né cattiva e un 22% di veri antieuropeisti.
Da questo punto di vista, il risultato delle elezioni -nella loro totalità e nelle specificità delle singole realtà nazionali -sembrerebbe dunque essere stato in gran parte consequenziale. E tuttavia occorre fare delle distinzioni, che rendono probabile una serie di scenari fra loro diversi.
Giudicare come “buona” una cosa non vuol dire esprimere un giudizio di valore ma spesso affermare un giudizio di fatto. Qualcosa può essere pensata “buona” non perché desiderabile ma perché “utile” (così come, ad esempio, di un coltello, si dice che è una buona lama non perché sia moralmente accettabile ma perché taglia bene). A proposito di questa ambivalenza -che suggerisce interpretazioni più complesse, meno scontate -una cartina di tornasole sono due altri indicatori solitamente usati da Eurobarometro per stimare il livello di consenso verso l’Unione Europea, ovvero se quest’ultima evochi “un’immagine positiva o negativa” e se l’appartenenza ad essa sia percepita, “in base ad un calcolo costi/benefici, come fonte di vantaggi per la propria realtà nazionale o meno”. Ebbene, alla prima domanda -nel Dicembre dello scorso anno -la percentuale di chi rivela un sentimento di apprezzamento scende (media Unione Europea, senza la Gran Bretagna) al 45%, con stavolta valori ben al di sopra della media di Irlanda, Polonia, Portogallo e Germania, e cifre ben al di sotto in Spagna, Olanda, Francia e Grecia. L’Italia – in maniera controintuitiva -fa registrare un 42%, insieme però ad una percentuale più alta che altrove di reazioni emotive totalmente negative (il 31% verso una media UE del 23%) e una di indecisi del 25% (vs il 30% complessivo). Il secondo quesito -relativo al rapporto opportunità/svantaggi -è meno introspettivo, istintivo, e più ponderato, razionale: rispetto ad un valore centrale europeo relativamente alto (68%) due terzi dei Paesi sono al suo di sopra, mentre -fra i pochi al di sotto -troviamo la Francia e la Grecia (dieci punti percentuali di distacco) e, ancora una volta, l’Italia (27 punti in meno).
Ora, l’insieme di queste cifre suggerisce a nostro avviso un quadro ben più complesso di quello in questi giorni considerato, e crediamo illumini alcuni nodi cruciali che la Politica – se vuol essere con la “P” maiuscola -dovrà considerare.
La prima questione è che l’euroscetticismo non è tutto uguale. Se ne danno in ipotesi tre tipi. Il primo è un vero e proprio antieuropeismo, rappresentato da persone e gruppi sociali effettivamente ai margini della vita sociale, nazionale e internazionali. Le analisi della geografia del voto a suo tempo negli Stati Uniti in occasione delle ultime elezioni presidenziali -così come di quello altrettanto presidenziale in Francia nel 2017 e sulla Brexit nel Regno Unito l’anno prima -mostrano in maniera tendenzialmente omogenea come il ripiegamento comunitario e populista di destra segua due cleavage: quello citta/campagna e quello metropolitano/periferico. La globalizzazione -sin, simbolicamente, dal 1492, anno della scoperta “ufficiale” dell’America -ha sempre dei vincitori e dei vinti. I primi sono quelli più inseriti nei circuiti transnazionali degli scambi economici e culturali, e che hanno l’opportunità di spostarsi. Trump vince nelle “cinture” manifatturiere in via strutturale di deindustrializzazione del Nord America e negli Stati rurali del centro e del meridione d’America, perde invece nelle aree urbane centrali, e così è stata la demografia del voto referendario britannico e quella del voto presidenziale francese. In questo contesto, gli europeisti resistono meglio e si rilanciano nelle grandi città piuttosto che nei piccoli centri urbani, così come si sta delineando dai primi approfondimenti sui risultati prima nazionali e poi europei in Italia. L’antieuropeismo sembra insomma essere, da questa prospettiva di analisi, un fenomeno di solitudine, e questo introduce ad una seconda considerazione, ad un secondo bivio.
Se consideriamo i Paesi che più frequentemente si situano al vertice delle classifiche di sostegno all’idea europea e di appoggio alle istituzioni dell’Unione, troviamo immancabilmente al vertice quelli centrosettentrionali. Si dirà: è evidente, sono i più ricchi, sono quelli che, grazie alla loro prosperità, ricevono alla fine più vantaggi dall’ombrello innanzitutto economico europeo, ed anche quelli che -non appena sentano messa in gioco la loro egemonia -non mostrano grandi scrupoli a difendere i loro privilegi. In parte è vero: l’austerity è più sopportabile quando si hanno le scorte piene e il timore di veder compromessa la propria qualità della vita è tanto più reattivo quanto più la minaccia si concretizza (si vedano ad esempio le restrizioni nelle politiche migratorie attuate recentemente in Olanda, Danimarca o Svezia). E tuttavia il dato suggerisce un’interpretazione più profonda. I Paesi che si sono dimostrati più aperti verso il progetto europeo sono quegli stessi in cui il senso di sicurezza personale, sociale e istituzionale è più solido e corroborato. Lo spirito di sopravvivenza -declinato nelle forme della così detta natura primaria, ovvero fisica e organica, ma anche in quelle della natura secondaria: relazionale e culturale -è uno dei principi di funzionamento basilari di qualunque convivenza sociale. Quando il proprio contributo lavorativo e fiscale, per quanto grande possa essere, è remunerato con servizi ben gestiti da amministrazioni efficienti e governato da istituzioni degne di fiducia per la loro capacità di infondere un senso di scurezza sociale non esclusivo, l’atteggiamento nei confronti della diversità -al netto della naturale paura istintivamente nutrita all’inizio nei confronti dell’anomalia che si fa normalità (come nel caso dell’apparizione dello “straniero” nello scenario della vita quotidiana -è sempre alla fine, per quanto gerarchizzante, di disponibilità ed inclusione, di confronto con il diverso (una cultura migrante, una di un altro Paese membro dell’Unione Europea, a coltivare un comune senso di appartenenza ad un progetto conflittualmente condiviso).
Queste precondizioni di sistema, strutturali, di apertura proattiva al mondo, di accettazione del rischio di prender parte alla costruzione di una collettività più ampia di quella nazionale, sono oggi forse più importanti dei meccanismi di riconoscimento e di accettazione basati in maniera informale sull’interazione quotidiana con gli altri-da-sé, persone (come i migranti) o popolazioni (come gli stranierinon di meno europei) che siano. Ma queste ultime dinamiche “informali” -tipiche ad esempio del nostro Paese -continuano a propria volta a funzionare. Il che ci porta al secondo tipo di euroscetticismo: quello opportunista. L’habitusitaliano è noto e fonda su tre caratteri tendenzialmente non riflettuti e coscienti, su tre mentalità subconscie. Con puro intento classificatorio e non di giudizio morale, nonostante la stringatezza delle etichette): la duplicità morale, la pragmaticità, il familismo corporativo.
Per il primo, esistono sempre due spazi: il proscenio, ovvero il palcoscenico pubblico, sul quale occorre dar prova di certosina capacità di regolamentazione, di apparente rigore applicativo, di manifesto conformismo e di emotiva intransigenza verso chi si scopre in infrazione; il secondo è il retroscena, cioè le dimensioni private della vita quotidiana, nelle quali si svolge, in senso negativo e positivo, il lavoro sporco, e in cui si fa mostra pratica di auto-compiacenza in caso di mancato rispetto della regola ma anche di inaspettati atti di reciprocità e di mutuo aiuto anche a dispetto dell’ufficiale vincolatività della regola. Si delinea così la seconda caratteristica, la pragmaticità: non c’è interesse comune che possa essere salvaguardato senza un contemperamento di quelli provati. Solo che il processo può partire da un estremo o dall’altro del continuum. Si possono, avendo innanzitutto sott’occhio il primo, ridefinire i secondi, in modo da renderli conflittualmente compatibili con quello, oppure si può partire dal proprio particularee, in un faticoso lavoro polemico di avvicinamento, giungere non tanto ad una sintesi ma ad un’accettabile giustapposizione che -per un periodo sufficientemente lungo garantito da quel primo tratto caratteriale là sopra -possa segnare un equilibrio alla fine vantaggioso per tutti: basta che tutti si impegnino nel tacito accordo di non smuovere le acque. Dal che la terza componente, familistica corporativa, ovvero la tendenza a forzare i limiti di tenuta e compatibilità dell’accordo solo quando si percepisca nel comportamento altrui una minaccia, reale o immaginaria, alla propria posizione di gruppo.
Ciò che deriva da questa costellazione di personalità individuali e collettive è come dicevo, un accentuato atteggiamento opportunistache -trasposto sul piano politico e degli atteggiamenti verso orizzonti comuni quale l’Unione Europea -si traduce in un distacco da essa in parte emotivamente neutro (si tratta del terzo tipo di euroscetticismo, quello anaffettivo: in Italia, la percentuale di quanti considerano l’Unione Europea né una cosa buona né una cosa cattiva è, come detto, del 41%, il valore più alto prima solo di quello dell’Ungheria, al 48%, dove peraltro Orban sembra non avere alcuna intenzione di seguire le orme del Gran Bretagna, ed alcuna di allearsi a Bruxelles con la Lega di Matteo Salvini), in parte saggiamente strumentale, posto che, nel nostro Paese, alla domanda su quale orientamento si abbia in caso di un referendum su un’eventuale “Italexit”, il 49% risponde che voterebbe il remain, solo il 19% si esprimerebbe per il leavee solo una persona su tre dichiara di non saper ad oggi cosa fare. Senza considerare infine le reazioni al quesito circa l’uscita dall’area euro, le quali -secondo dati SWG rilevati ad Ottobre 2018 -indicano un desiderio di ritorno alla vecchia valuta da parte del solo 21% (si rattava di una persona su tre nel 2017 e di quattro su dieci nel 2012).
Alla luce di queste considerazioni -e posta la loro plausibilità nonostante, lo ripetiamo, la limitata rappresentatività statistica delle rilevazioni demoscopiche come quelle Eurobarometro sulle quali l’analisi si è basata -il futuro dell’Unione Europea sembra dunque dipendere, in maniera niente affatto scontata ma oggi con una certezza in più circa la sua possibilità, dalla capacità delle nuove élite dirigenti europee e nazionali di dare, da un lato, risposte innovative e convincenti al bisogno di una sicurezza sociale che completi la solidità economica e finanziaria (una condizione altrettanto cruciale) dell’architettura continentale, dall’altro di operare affinché l’euroscetticismo, in gran parte opportunistae anaffettivo, trovi le ragioni di una maggior fiducia e sfugga gradualmente alla presa centripeta di quell’ideologia violenta compiutamente antieuropea oggi nutrita, soprattutto in Italia (la situazione francese e in parte diversa), da forze di governo autenticamente di destra e populiste.
Ma, su tutto questo, torneremo con approfondimenti specifici nei prossimi giorni.
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