A suo giudizio perché oggi le nazioni sono ancora importanti ed è necessario difenderle?
Per rispondere alla domanda prendo le mosse dall’articolo 3 della Déclaration des droits de l’homme e du citoyen, promulgata il 26 agosto 1789 dall’Assemblea nazionale costituente francese e posta quale primo pilastro della grande trasformazione politica in atto: «Le principe de toute souveraineté réside essentiellement dans la nation. Nul corps, nul individu ne peut exercer d’autorité qui n’en émane expressément». Con la Rivoluzione francese si afferma il principio fondamentale della democrazia dei moderni, ossia la sovranità popolare. Qualsiasi autorità, individuale o collettiva, è legittimata a presentarsi e ad operare pubblicamente come tale se e solo se emana espressamente dalla nazione. Quest’ultimo concetto è il tramite per il passaggio da un potere che proviene dall’alto ad uno che scaturisce dal basso. Da uno, o pochi, ai molti, o tutti.
Insomma, se vuoi la democrazia come regime di rappresentanza di istanze provenienti dal basso, dove il basso detiene sempre e comunque il potere di ultima istanza di stabilire cosa si fa, come si fa e dove si va in quanto comunità, grazie al momento elettivo con cui si premia o sanziona chi è provvisoriamente chiamato al timone, alla guida della comunità, se vuoi tutto ciò, allora devi trovare un criterio che definisce questo “basso”, lo delinea e configura, conferendogli una fisionomia, un’identità come soggetto titolare di sovranità. La nazione è ciò che ha consentito di creare la soggettività democratica, è il démos dei moderni.
Nell’antica Grecia, ad Atene in particolare, il demo era una suddivisione del territorio dell’Attica, regione di cui appunto Atene era capitale. Un concetto spaziale inclusivo di una presenza di abitanti, ivi nati e cresciuti per poter poi, al compimento di una certa età, rivendicare legittimamente la titolarità e l’esercizio di diritti di partecipazione alle decisioni vincolanti la comunità. Cittadini che, come tali, erano detentori di una quota di sovranità, insomma. D’altronde, anche in realtà geopolitiche in cui il cammino verso la democrazia dei moderni ha seguìto altri percorsi, come nell’isola della Gran Bretagna, si è sempre partiti dall’appartenenza per nascita ad un dato territorio: birthrights of Englishmen. Nel caso britannico, dunque, la nazione si costruisce dalla e nella storia intesa come tradizione, ossia perdurante presenza di libertà garantite contro forme tiranniche di governo, abuso di un potere che deve restare limitato e al servizio della comunità di origine.
Tornando al contesto europeo continentale, abbiamo costruito la democrazia dei moderni sul principio della sovranità nazionale-popolare. Abbiamo allargato la nozione di popolo agendo sui diritti di cittadinanza, includendo tra Otto e Novecento un numero sempre più ampio di persone, fino ad aprire a chi, allogeno, soddisfaceva certi criteri di ammissione. In ogni caso, lo Stato democratico funziona nel bilanciamento tra diritti riconosciuti e doveri pretesi, nella loro circolarità, per cui il tuo diritto è mio dovere, e viceversa. Se si tiene alla democrazia, si deve anche tenere ad una comunità di riferimento, che consenta di stabilire chi è titolare di questi diritti e doveri, in modo che vi sia anche imputabilità, dunque responsabilizzazione.
La nazione va probabilmente difesa per la sua capacità di dare forma e ordine ad una comunità di liberi ed eguali, obiettivo di una politica democratica. Può avere varie dimensioni, differenti criteri di ammissione, ma non può al contempo non avere una fisionomia, ovvero dei confini che la delimitano e definiscono come soggetto imputabile e responsabile, oltreché titolare ed esercente. La si chiami nazione o altro, ma uno spazio definito è conditio sine qua non per un potere limitato e controllabile. A spazi amorfi e indefiniti, potenzialmente espandibili, corrisponde un potere illimitato e senza un controllore certo, tanto da rendersi, quest’ultimo, autoreferenziale e dunque arbitrario. Le compagnie multinazionali de-territorializzate sfuggono a qualsivoglia controllo democratico, cioè dal basso, da parte di chi si riduce pertanto ad esserne solo fruitore passivo, privo di libertà di scelta. La prefigurazione di un mondo senza territorio e senza confini come quel microcosmo parallelo creato dalla tecnologia digitale e virtuale in cui ciascuno di noi rischia di essere trasferito e confinato può aiutarci a comprendere in cosa e per cosa meriti una difesa della nazione.
Concludo sul punto sollevato dalla domanda con le parole che Marcello Veneziani ha sapientemente messo in bocca al suo amato Plotino, in una plausibile finzione narrativa: «È impossibile restare a lungo in luoghi che non sono patrie ma domicili di abitudini, dimore svuotate di senso». Patria è là dove la mia vita ritrova il suo destino, una sobria missione terrena e persino il senso del soprannaturale. Non è affatto detto che la nazione ottemperi allo scopo. Non necessariamente una nazione ti è patria. Però solo un genius loci radica un uomo e lo lega ad altri suoi simili, favorendo in ciò il connubio tra libertà, intesa come autogoverno, ed eguaglianza, intesa come fraternità. Lo spazio, il territorio, non è dunque mai neutro né superfluo. In questo senso la nazione come patria ha un peso non sottovalutabile.
È più favorevole a uno stato centralizzato oppure a concedere maggiori autonomie alle regioni? Nel caso, in quali ambiti?
Uno studioso che voglia tentare di fare scienza della politica deve prescindere da una predilezione personale, che peraltro sul tema non ho, perché appunto per me sul punto in questione dipende da situazione a situazione. Lo Stato è una forma, storicamente data, di potere, nonché di esercizio ed organizzazione di esso in funzione della convivenza di una determinata popolazione residente in un certo spazio territoriale. Se vuoi fare una seria teoria politica, devi sempre partire dalla storia. I fenomeni su cui ricade lo sguardo che poi si fa teoria della politica sono sempre e comunque frutto dell’interazione di una moltitudine di uomini e donne, che agiscono e reagiscono in un dato tempo e in un dato spazio. Un tuo sguardo che voglia farsi scientifico non può non tener conto dell’oggetto osservato, della genesi che lo ha portato ad essere quel che è, del contesto che lo condiziona in tale o talaltra misura, e così via.
Dunque, per rispondere alla domanda, bisogna prima capire di quale territorio stiamo parlando, con la storia, recente e remota, di natura politica, sociale e culturale, che esso si porta dietro e che costituisce un fardello comunque influente, lo si voglia o no. Se intendiamo fare riferimento all’Italia, la cui storia conosco meglio di altri Paesi europei, la mia personale impressione, rafforzata dall’ultimo anno e mezzo di crisi pandemica, è che stia riemergendo con forza nella penisola la storia antecedente il 1861. Stiamo per certi aspetti tornando ad una situazione preunitaria, favorita da un potenziamento dell’istituto regionale, iniziato nel 2001 con la modifica del Titolo V e acuito dalla mancata riforma dell’esecutivo a livello nazionale nel successivo ventennio che ci separa da quell’importante modifica costituzionale. Diverse la qualità e la credibilità del consenso di cui può oggi godere, rispetto ad un presidente del Consiglio dei ministri, un presidente di Regione, che nel gergo giornalistico e nel comune dire è solitamente chiamato con l’appellativo, eloquente, di “governatore”. A prescindere dalle valutazioni di merito sui singoli provvedimenti, abbiamo visto questo squilibrio nella titubante condotta del governo Conte bis nonostante uno stato di emergenza per rischio sanitario dichiarato a fine gennaio 2020 e più volte prorogato. Il governo Draghi è subentrato anche per gestire in modo fluido e coordinato tra centro e periferia un imponente piano vaccinale a livello nazionale. Altro esempio, questo, di come anche dentro una tradizione o tendenza di un certo tipo, mettiamo regionalista, si possano produrre situazioni eccezionali che richiedano una maggiore centralizzazione statale.
Al netto del momento che stiamo vivendo, però, ribadisco la mia sensazione, che riconosco non essere sufficientemente suffragata da dati empirici, di uno Stato italiano a bassa intensità di sentimento nazionale diffuso tra i suoi cittadini, che confidano maggiormente nelle autorità locali, sindaco in testa, si identificano più facilmente con la dimensione regionale, manifestandosi ai loro occhi lo Stato centrale per lo più sotto forma di burocrazia troppo estesa, farraginosa e lenta, nonché tassazione esosa e sperequata. Dunque maggiori autonomie locali, regionali e/o municipali, potrebbero portare un qualche riequilibrio e rinsaldare il legame comunitario nazionale in Italia, oppure accentuare processi disgregativi già in atto da tempo?
Credo che la risposta dipenda dalla capacità dell’erario, cioè delle finanze dello Stato, di arginare richieste contraddittorie emergenti in settori diversi della società e in differenti aree della penisola. Meno Stato, da una parte, più Stato, dall’altra. Finché ci saranno risorse da prelevare da una parte in misura sufficiente da poter ridistribuire nell’altra, il legame unitario potrà tenere. Ma proprio perché questo è a forte rischio di tenuta per prolungato logoramento, si sta puntando molto sul Piano nazionale di ripresa e resilienza, il famoso Pnrr, all’interno del più ampio e generale progetto europeo per la ripresa dell’Unione Europea (Next Generation EU). Si punta sul vincolo esterno europeo perché si riveli virtuoso e rinsaldi legami che si sono da tempo gravemente allentati.
Ci sono alcuni territori come la Catalogna in Spagna che chiedono una propria indipendenza nonostante abbiano già un’ampia autonomia, non rischia di essere pericoloso per la tenuta degli stati nazionali?
È ovvio che oltre una certa misura e quantità di poteri delegati, o addirittura trasferiti, il vincolo tra centro e periferia infine salti. Se il territorio che gode di autonomia cessa di essere, pur entro limiti molto ristretti, la periferia di un centro, quest’ultimo non ha più ragione di porsi come Stato. Se per indipendenza intendi sovranità, questa è appannaggio di un ente, che al suo interno la divide, la sovranità, secondo i principi del costituzionalismo e dello Stato di diritto, ma deve comunque restare originario (non derivante da altro) e superiorem non recognoscens, che non riconosce un altro superiore. Con questa espressione si indicano i supremi organi dello Stato, posti in posizione di indipendenza e parità tra loro. Poi, dopo l’avvio del processo di integrazione europea, qualche eccezione si comincia a riconoscerla e abbiamo così superiorità autorizzate, mentre altre sono non consentite e di fatto illegali, come quelle delle imprese economiche multinazionali, tipo le web companies. Se però a questi fenomeni già in corso “in alto” si aggiungessero spinte indipendentiste “in basso”, non si capisce più cosa possa e perché debba continuare a dirsi Stato nazionale.
A proposito della Catalogna, qual è la sua opinione sui fatti del 2017 con la proclamazione dell’indipendenza da parte di Puigdemont?
L’impressione è che, nell’ottica degli indipendentisti catalani, la Catalogna dovesse sostanzialmente diventare Stato a sé, ossia soggetto sovrano autodeterminato. L’indipendentismo è il nome che il nazionalismo prende quando un movimento, anche “di popolo”, che poi vuol dire “maggioritario”, ossia con largo seguito di popolazione attiva, più o meno mobilitata e militante, manca ancora di uno Stato sovrano che intende costruire dalla secessione di una porzione di territorio da strappare ad uno status quo ante, o meglio a quell’autorità statale costituita contro cui si rivendica la propria indipendenza.
Dire chi ha ragione in una questione di scontro tra forze, lotta tra gruppi di interesse e poteri (statal-nazionale vs substatal-regionale), diventa perciò solo una scelta ideologica. Chi è dalla parte dello Stato nazionale vigente sottolinea il peso della storia che preme in tal senso, mentre chi è dall’altra parte sottolinea il peso di quella storia che preme in direzione opposta. Al di sotto delle ragioni di parte, si può valutare la convenienza o meno della rottura di un patto (foedus, da cui federalismo, a dimostrazione che non si dà indipendenza in nessuna forma di Stato federale) e, per quanto ci si sforzi, nel caso catalano si fatica a vedere il beneficio di un’indipendenza. L’autonomia è già ampia e sufficientemente vantaggiosa (qualche onere non può non esserci, come in qualsiasi legame e consorzio umano, piccolo o grande che sia).
Un conto è parlare di autonomia dei territori e delle regioni, un altro chiedere l’indipendenza, secondo lei le richieste indipendentiste sono sbagliate? Se sì, perché?
Credo di aver sostanzialmente risposto con quanto sostenuto sopra. Non è che siano richieste sbagliate, quelle indipendentiste, non sempre e comunque. Anche qui dipende di caso in caso storico, presente o passato. Difficile poi trovare un criterio oggettivo per cui tali rivendicazioni siano totalmente giuste o totalmente sbagliate, salvo il caso in cui a chiedere l’indipendenza sia una popolazione che viene oppressa e vessata, magari dopo una conquista per cui quel dato territorio è stato annesso con la violenza di una guerra, magari subìta e nient’affatto provocata. In questo caso la rivendicazione dell’indipendenza è totalmente giusta, equivalendo ad una lotta per la libertà perduta.
In ambito europeo è favorevole a un’Europa confederale basata sulle nazioni? Oppure ai cosiddetti “Stati Uniti d’Europa” con una maggiore centralizzazione?
Anche qui preferisco rispondere in nome di un principio di realtà e non di preferenza personale, più o meno ideologica. Intendo dire questo: Europa è o deve diventare soggetto geopolitico, sì o no? La domanda va così posta. Ne consegue che una soggettività in politica si misura in base al grado di sovranità di cui gode. L’Europa non può non essere che un soggetto plurale, che nasce da e conserva la pluralità di Stati-nazione che la intendono costituire. Però tertium non datur, nel senso: o c’è un momento di sintesi, tale per cui di fronte a soggetti terzi, ad esempio Cina, Stati Uniti d’America, Russia, India, l’Europa domanda e risponde come Europa, oppure non c’è Europa. Una logica stringente esiste anche in politica, come in matematica. Se non sei uno Stato federale europeo, sarai un singolo Stato-nazione europeo, oppure un gruppo molto ristretto di essi, che si presenta a nome degli altri e domanda e risponde per conto degli altri. Questo si chiama anche democrazia, ossia regime elettivo-rappresentativo: qualcuno sceglie qualcun altro perché ne rappresenti, tuteli e promuova interessi e posizioni di fronte a terzi. Allora ciò significa che si deve trovare un meccanismo decisionale per cui comunque qualcuno è eletto da tutti coloro che hanno deciso di far parte del consorzio politico europeo e così, a sua volta, può deliberare come rappresentante di tale Unione (europea) legalmente e legittimamente deputato a tal scopo.
Dunque, non tanto una confederazione, da cui l’attuale configurazione istituzionale europea non è poi molto distante, ma piuttosto una federazione è la forma che sola può dar vita ad un soggetto politico autentico, ossia sovrano in politica estera, cioè di sicurezza, oltre che di moneta e commercio. Sempre realisticamente, non ritengo che si possano sopprimere le nazioni europee, uniche detentrici di un’identità che una storia plurisecolare, quando non millenaria, ha loro conferito. Ritengo però che, sempre per amor di logica e realtà delle cose politiche, occorra individuare un momento di sintesi che non solo rappresenti, ma anche decida legittimamente a nome di 27 Stati europei e quasi 450 milioni di cittadini europei. Un presidente dell’Ue eletto direttamente da quei circa 400 milioni di cittadini europei aventi diritto di voto nei rispettivi Stati-nazione?
La proposta fu lanciata, per restare all’Italia, da Ernesto Galli della Loggia e Roberto Esposito dalle colonne del “Corriere della Sera” nella primavera del 2017. Parole rimaste sulla carta. Eppure siamo sempre lì, aggrappati a quel nodo non sciolto. O lo si allenta, o potrebbe farsi scorsoio. Di fronte a questa alternativa, si obietta che l’attuale assetto può procedere, confidando nella politica dei piccoli passi e della maggiore integrazione sul piano economico-commerciale (che non si dà, vedi il caso recente e crescente dei rapporti con la Cina). Nel breve periodo è quasi certo che proseguiremo in tal guisa. Navigheremo a vista, restando a metà del guado, con partner di serie A e partner di serie B dentro gli organi di vertice dell’Ue vissuti e agiti come un club riservato per accedere al quale si sgomita e si briga, ora con l’uno ora con l’altro, sperando di passare dalla serie minore a quella maggiore.
[Versione integrale di un’intervista a cura di Federica Masi, apparsa in formato ridotto, con il titolo Proposte per riformare l’Unione Europea, su «Nazione Futura», n. 15, Autunno 2021, pp. 81-87]
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