Lo incontriamo dove il cuore di Israele pulsa con battiti più veloci: Ron Dermer ci accoglie in un ufficio accanto alla sala del Gabinetto di guerra di cui fa parte: come all’inizio di un film, passano nel corridoio i protagonisti che con Dermer passano la giornata discutendo e poi prendendo le decisioni. Se si ha una pazienza, puoi vedere entrare dentro quella sala Netanyahu, Gantz, i capi militari e dei servizi segreti, Dermer è oggi Ministro degli Affari Strategici, incaricato di occuparsi di cose basilari, rapporti con gli USA, accordi di Abramo, Iran. Ambasciatore in USA dal 2013 al 2021 ha lavorato ai maggiori risultati conseguiti da Israele, l’Ambasciata americana a Gerusalemme, i Patti di Abramo, la revisione del rapporto con l’Iran. È uno stratega e un intellettuale molto più di un politico, laureato sia in Filosofia che in Finance Management, ha incontrato Netanyahu quando glielo presentò Nathan Sharansky dopo che nel 2004 aveva scritto con lui “The case for Democracy”. Suo padre e suo fratello sono stati ambedue sindaci di Miami, ha 53 anni e sembra un attore di Hollywood, è religioso ma aperto e liberale. Sua moglie, un avvocato, Rhoda, alta e sportiva come lui, gli ha dato cinque figli. Netanyahu se deve discutere di qualcosa di veramente difficile sceglie Dermer che non è mai stato nel Likud né in altri partiti e non deve rispondere a nessuna “costituency” ma solo alla sua complessa e franca propensione politica e morale.
Ambasciatore, scusi la franchezza, lei che è sempre stato un patriota israeliano molto fiero, dopo l’incredibile disastro del 7 ottobre, non si sente colpito nel suo sentimento di vittoria del popolo ebraico sulla storia?
“Certo, la promessa di Israele, non consiste solo nel ritorno degli Ebrei alla loro terra d’origine, ma anche nella nostra capacità di difenderci. Il 7 ottobre di fatto la promessa è stata rotta: il nostro compito, o almeno io vedo così il mio nel Gabinetto di Guerra, è ricostituire la promessa. Il punto di partenza è la distruzione di chi ha lanciato l’attacco del 7 ottobre. Hamas non deve sopravvivere come forza militare organizzata. Punto”.
Certo, ma non sono troppi i “perché” e i “di chi è la responsabilità” che aleggiano sulla società israeliana?
“Le domande sono tante e tutti dovremo rispondere, anche io, un Ministro di questo governo. Verrà il momento. Adesso, dal 7 di ottobre, l’esercito, i servizi di sicurezza, tutti combattono con bravura”.
Qual è lo scopo della guerra e come deve finire? Tutto il mondo se lo chiede.
“La guerra deve rimuovere Hamas, distruggere la sua capacità militare, mettere fine al suo potere politico, e assicurare che Gaza non rappresenti più una minaccia”.
Ma tutto il mondo spinge ormai per un cessate il fuoco.
“Prima di tutto, noi dobbiamo necessariamente rimuovere Hamas, e chi non lo capisce non conosce questo Paese. La gente d’Israele lo esige, e questo faremo”.
Da lontano si vede una battaglia di cui è difficile comprendere i passi e la conclusione possibile.
“Primo punto: dobbiamo distruggere i battaglioni di Hamas che non è una banda terrorista ma un esercito con ventiquattro battaglioni. Diciotto sono stati sgominati. Quando un battaglione è sconfitto però non vuol dire che hai preso tutto il suo territorio. Vuol dire che il 50 per cento è eliminato o fuori gioco. Oltre ai terroristi rimasti fra questi abbiamo altri sei battaglioni. Se li lasciamo sul terreno, Hamas tornerà a prendere possesso di Gaza”.
Ma dove è Sinwar? Cosa ne è delle gallerie? Ancora non sono distrutte.
“Le distruggiamo passo passo con grande successo. Ma, numero due, dobbiamo sconfiggere la leadership e ancora non siamo arrivati alla vetta. Via via che si va a sud e ci occupiamo di Rafah, aumenta la possibilità di arrivare ai leader”.
Perché non siete ancora arrivati alla leadership?
“Ci siamo vicini, lo spazio gli sta venendo a mancare. Gaza non è la Russia… Una volta presi, il punto numero tre è la strategia che io sostengo dall’inizio: resa, esilio. Con questo si conclude la guerra: potremo riprenderci gli ostaggi in una volta perché saranno parte dell’accordo; dopo la sconfitta e la resa le rimanenti forze possono andare in Qatar o in Libano… e finalmente inizierà il ‘giorno dopo’”.
Ovvero? Sta parlando dell’avvento di una leadership che gestisca la Striscia?
“Finché c’è Hamas, non può esserci futuro. Dopo come ha detto il Primo Ministro possiamo muoverci su due concetti demilitarizzazione e deradicalizzazione. Oggi ho più speranze sul tema del conflitto israelopalestinese di quante ne abbia avute in 30 anni”.
Un momento: sta parlando dello Stato palestinese di cui Biden sembra essere il maggior paladino.
“Biden è un presidente sionista, che da subito, venendo nei primi dieci giorni di guerra ci ha sostenuto con la sua visita. Quanto allo Stato palestinese anni fa, a un dibattito chiesi alla gente che cosa ne pensava. Il 90 per cento era a favore. Quando ho chiesto in quanti volessero uno Stato palestinese armato, nessuno era d’accordo, e lo stesso quando ho chiesto se dovesse controllare lo spazio aereo fra il Giordano e il Mediterraneo, o se dovessero avere un patto militare con l’Iran. Cioè, molti volevano che i palestinesi potessero governarsi, ma non che avessero il potere di minacciare Israele. Non si può attribuire ai palestinesi sovranità illimitata, in ogni accordo futuro i limiti per non avere uno stato nemico devono essere chiari”.
Però Biden seguita a suggerirlo.
“Riconoscere uno Stato palestinese sarebbe, oggi, il maggiore premio per il terrorismo. Sarebbe un disastro che la comunità internazionale desse un premio per l’attacco del 7 di ottobre. Chi ama la pace non può volere che un palestinese fra 5, 10, 15 o 20 anni possa guardarsi indietro e dire che la strage di massa degli ebrei ha catapultato avanti la causa palestinese. Hanan Ashrawi la portavoce palestinese, dopo un terribile attacco terrorista fu intervistata dalla BBC. Il giornalista le disse: ‘Non avrete uno Stato finché non combatterete il terrore e farete pace con Israele’. La risposta fu: ‘Noi siamo un popolo con diritto all’autodeterminazione, quindi avremo uno Stato. Se poi decidiamo di fare la pace, è un altro tema’. Cioè, lo scopo nello stabilire uno Stato era seguitare il conflitto, non terminarlo. Noi invece non vogliamo che si separi lo Stato dalla Pace. Per questo non accetteremo nessun diktat e ogni pace sarà negoziata fra le due parti”.
Ma anche nel gabinetto dei Guerra appaiono posizioni più disponibili alla visione americana.
“La Knesset ha votato unita, e questo spiega che non ci sarà una soluzione imposta che rappresenti un rischio per Israele. Quando si sentono tante critiche dei media su Netanyahu o sull’unità della coalizione sul tema, è un messaggio in codice per criticare Israele. Sulle politiche di guerra, militarmente e diplomaticamente il governo rappresenta la grande maggioranza”.
La critica internazionale è puntata sugli aiuti umanitari e sul grande numero di morti e feriti palestinesi, con l’accento su quanto la condizione dei palestinesi a Rafah può diventare un disastro umanitario. E si dice che attaccare Rafah può bloccare la trattativa sugli ostaggi.
“Sugli ostaggi, 112 sono stati liberati, 2 con un’azione molto audace dentro Rafah. Restano 134 di cui parte potrebbero non essere più in vita: sappiamo che la via più realistica per rivederli è attraverso un accordo. Quanto a Rafah: se lasciamo in piedi i battaglioni che vi dimorano abbiamo perso la guerra; ma attueremo strategie per muovere quanti possiamo in altre aree a nord di Rafah, e studieremo come fargli ricevere aiuto umanitario. È per noi un impegno non solo legale o strategico, ma anche morale. A Gaza più di metà dei residenti è sotto i 18 anni, metà sotto i 10: sarebbe folle negargli aiuto. Noi seguiteremo, anche se resta la domanda di dove va a finire. E mi creda, l’ultima pita se la prende Hamas. Quanto ai cittadini di Gaza durante la guerra, il nostro impegno è stato ed è colossale, direi senza precedenti, in avvertimenti, telefonate, strade sicure. Hamas è responsabile della loro tragedia”.
Signor Ministro, come vuole veder finire questa guerra, come vede il futuro.
“Dobbiamo assicurarci la demilitarizzazione dell’area innanzitutto: il confine con l’Egitto deve essere sigillato così da impedire passaggi di armi e uomini; dobbiamo poter seguitare a condurre operazioni militari, sperando che siano sempre meno nel tempo, agendo a Gaza come oggi in Giudea e Samaria… Occorre anche un perimetro di sicurezza che provveda alle comunità intorno la possibilità di vivere in sicurezza”.
Ma come si abbandona la prevalenza del controllo militare? A chi si affida la Striscia? Occorre uno sfondo strategico che non si vede ancora.
“Occorre ciò che a me sembra altrettanto importante, la deradicalizzazione. Altrimenti fra 20 anni ci odieranno nello stesso modo. Dunque, dopo una vittoria militare è possibile cambiare l’odio palestinese in convivenza? Altrimenti ci prendiamo in giro. Oggi l’85 pe cento dei palestinesi dell’Autorità nazionale palestinese sostiene la strage del 7 ottobre. La questione non è diplomatica, non si tratta di cambiare leadership, ma di cambiare cultura. Cosa impara un bambino di sei anni a scuola? E a 10, cosa vede in tv? E a 15 anni, chi sono i suoi eroi? Occorre un cambiamento basilare. La Germania e il Giappone furono deradicalizzati, e ci vollero anni. Ciò accadde molti anni fa, ma anche oggi vedi società che si stanno trasformando: l’Arabia Saudita, e i Paesi del Golfo, sono società in piena modernizzazione e deradicalizzazione”.
E come comincerà questa trasformazione?
“Con la sconfitta militare, solo così può avere inizio”.
Infine, prevede l’apertura di un grande fronte anche con gli Hezbollah?
“La nostra è una scelta di ‘deterrenza attiva’. Hezbollah non sembra volere una guerra, cui comunque siamo preparati. Al Sud vogliamo cambiare la situazione con la guerra, al nord con la diplomazia: in questo caso la preferiamo, come la preferiscono gli Stati Uniti. Tuttavia, siamo pronti a combattere perché ci è chiaro che tornare alla situazione di prima del 7 di ottobre è impossibile sia a sud che a nord: è la prima volta che abbiamo visto l’asse dell’Iran che ci combatte da ogni parte. Anche i Houty si sono mobilitati per stringere l’assedio. La nostra vittoria sarà una vittoria anche per gli Stati Uniti”.
E lo sarà certo anche per l’Europa.
(questo articolo, già pubblicato da Il Giornale, è ripreso con il consenso dell’autrice)
Lascia un commento