“In una strada forse in una stanza / Dietro mille finestre / Noi guardavamo nella stessa direzione / E la storia si ferma / Quando i padri sono stanchi…” Gianna Nannini, California (1979)
Negli anni Ottanta Gianni Celati, scrittore, saggista, regista, compie alcuni viaggi “verso” il delta del Po, anche accompagnando il fotografo Luigi Ghirri.
Il periodo di un viaggio coincide con quello dell’incidente nucleare della centrale sovietica di Chernobyl e la “nube” incombe sulle riflessioni dell’autore.
Le narrazioni sono pubblicate nel 1986 nel volume Verso la foce, diario più che opera narrativa.
Questo libro è per me molto importante, letto appena uscito, quando iniziavo ad interessarmi di antropologia. È capitato poi che negli anni immediatamente successivi, verso il 1990 e qualche anno dopo, visitassi i luoghi raccontati da Celati.
Il libro, ancora oggi nel catalogo Feltrinelli, è rilevante proprio da un punto di vista antropologico perché ci offre gli strumenti per misurare il mutamento sociale della Pianura Padana, ci mostra come la “periferia” marchi, anzi segnali, la trasformazione della società, su come luoghi anche anonimi, modesti, possano offrire rilevanti informazioni anche sul futuro.
In effetti il libro di Celati (ri)letto 33 anni dopo quella primavera del 1986 (nel primo blocco narrativo) e quel 1989 che ha segnato con forza la storia mondiale con l’apparente fine della “guerra fredda”, ma anche il 1991 italiano con la Bolognina, è nella sua apparente semplicità una concentrazione di “segni” da apparire profetico se non apocalittico. Le villette che si allineavano (e si allineano) lungo la via Emilia, anzi più nell’interno, anche appunto verso la foce del Po, erano spie di un mutamento in corso: sociale, culturale, politico.
“Visita a una stradina di villette a forma di modellini, con tinteggiature acriliche o rivestimenti in piastrelle, bugnato o finta roccia. Tutte squadrate allo stesso modo, cassoni a due piani con tapparelle in plastica e corto spiovente dal tetto. I giardinetti attorno con sedie a sdraio o panchine sul prato all’inglese, falsi pozzi in scagliola, fiori troppo grandi e troppo colorati nelle aiole, e molto spesso i nani di Walt Disney ai lati della porta. In uno di quei giardini c’è un carrettino siciliano pieno di vasi di fiori, in un altro due oche di gesso sul prato, in un altro la statua della Madonna in un cespuglio di magnolie…” Gianni Celati, Verso la foce, p. 30.
“Così si è passati dalla “villetta del geometra” (imperfetta copia della villa hollywoodiana), alla casetta in presunto stile tradizionale (il “Mulino bianco” dei biscotti), passando per “copie autentiche” di case di campagna con porticato, fienile e archetti (un po’ schiacciate o allungate, ma questo poco importa) che non hanno nulla a che vedere con le sobrie proporzioni della tradizione.”, Raul Pantaleo, Un Pisolo in giardino. Segni, sogni, simboli alla periferia dell’abitare, Eleuthera, Milano, 2006, p. 15.
Se la Storia non si fa con il senno di poi è pur vero che spesso è la sensibilità degli scrittori più che i dati degli scienziati a individuare i mutamenti.
Pensate trent’anni dopo quelle villette ci fanno capire che avrebbero dato un forte messaggio “politico”, in una società che stava violentemente mutando, se comprese.
Il nodo nel 2019 non è il “populismo”, parola vuota come sempre di più ce ne sono, ma ancora una volta la mutazione delle reti sociali, la trasformazione dello spazio sociale, che viene proprio da lì.
La mutazione “antropologica” intravista da Pier Paolo Pasolini negli anni Settanta si ampliava, si moltiplicava alla fine degli anni Ottanta, a livello planetario. L’apparente fine dell’Unione Sovietica che collassa proprio su Chernobyl, il PCI che allo stesso tempo non è in grado di dare risposte sensate sull’incidente, con l’innesco di una deriva politica che lo frantumerà post 1991, il “crollo” del Muro di Berlino, sono trasformazioni storiche che non avvengono dal nulla e per nulla.
Quelle “villette” erano il simbolo forte di un arroccamento individuale, la perdita di un pensiero, di uno scambio nello spazio sociale, che diveniva sempre più minuscolo.
Il problema non era il mercato, il “consumismo”. I recinti, i limiti – e oggi si assiste sempre di più alla proliferazione in ogni luogo di cartelli “Proprietà privata”, davvero posti nei luoghi e nei modi più assurdi – sono mentali: la presenza nei giardini di oggetti veicolanti simbologie di fatto mute mostrava e dimostrava il completo distacco dal territorio.
Le villette di Celati galleggiano ancora sulla campagna: sotto ci può essere qualunque luogo.
* * *
A metà agosto 2019 sono stato in California… anzi, meglio a La California.
La California è un borgo a sud di Cecina, in provincia di Livorno, 275 km da Roma, come ci informa il cippo consolare, luogo di passo frequentato già dagli etruschi, che deve il suo nome a Leonetto Cipriani, prima cercatore d’oro proprio in California, in quella vera, negli Stati Uniti, nella prima metà dell’Ottocento e poi per nomina di Cavour console onorario del Regno di Sardegna a Belmont (CA) che una volta tornato in Italia, lui corso di Centuri (dove era nato nel 1812 e dove muore nel 1888), dà il nome della terra dell’oro a un piccolo villaggio di pescatori, dove capita chissà forse per caso, nome che porta almeno sin dal 1865, aiutato pare dell’oste Amerigo Gabbani.
La California di Livorno, poco più di 1.000 abitanti (nel 2011), è davvero un luogo speciale, che si gira in un pomeriggio e offre all’antropologo spunti di riflessione eccezionali sulla mutazione in corso adesso in Italia.
In poche ore ho fatto più di 300 fotografie, osservando con attenzione architetture, luoghi, persone.
La ex SS 1 Aurelia (ora SP 39) è la spina dorsale, anche se gran parte del paese non si sviluppa su quest’asse, ma a est della strada, attorno alla chiesa con un’architettura del tutto particolare, voluta dal parroco Gino Costarini e inaugurata nel 1968, con la dedica alla Madonna di Fatima.
Di fatto il borgo si è sviluppato per ondate successive, si vede bene, sino a sfumarsi adesso nella campagna: questo aspetto è interessante. La California non ha confini precisi, si allarga come un’onda per poi infrangersi verso il nulla.
Attorno alla chiesa, alla piazza che l’annuncia, ma senza essere troppo una vera piazza, si addensano villette sempre più nuove, sempre più simili a quelle che ha visto Celati verso la sua foce.
Anche la toponomastica è interessante: le vie che nell’interno corrono parallele alla ex consolare sono via 2 Giugno, via 25 Aprile, via 1 Maggio, via 4 Novembre, via 25 ottobre. Quest’ultima è la più misteriosa, perché non sono stato in grado di trovare informazioni sull’evento commemorato. Queste quattro strade sono intersecate da via Amedeo Modigliani, via Pietro Mascagni e via Leonardo da Vinci. Dopo via 25 Ottobre abbiamo una cesura.
C’è il vuoto di villette, lo spazio è colmato dalla scuola (dedicata ancora a Leonardo da Vinci) e impianti sportivi, oltre ad un’area feste dove si tengono varie sagre nel corso dell’anno, alcune segno di un passato rurale diventato oggi “turistico”.
Dopo questo spazio la topografia si fa più incerta, la precisione geometrica delle vie viste prima si sfuma in un intreccio “politico”: via Palmiro Togliatti (PCI), via Aldo Moro (DC), via Pietro Nenni (PSI), via e largo Enrico Berlinguer (PCI), sino a sfumarsi appunto nella campagna con un’urbanizzazione interrotta (o magari solo sospesa).
Le strade sono dedicate alla “memoria”, ma della quale poi non si ha più ricordo, ad “artisti”, a politici: tre blocchi che sembrano estratti a sorte, in un giorno di pioggia.
Curioso come l’inventore del borgo, Leonetto Cipriani, non sia rammentato… Una piccolissima strada verso la costa è vicolo Fattori, ma non è chiaro se sia il pittore e una strada che si perde nella campagna è via Carlo Ederle, eroe medaglia d’oro della Prima guerra mondiale (nato a Verona però…), residuo toponomastico di un noto ventennio. La piazza nei pressi della chiesa si chiama Martiri della Libertà.
Nei due “blocchi” in cui è diviso il paese la precisione delle villette è la medesima, la maggior parte con giardini maniacalmente curati, come musei, come luoghi nei quali non si deve assolutamente stare, entrare, ma comunque ben vedere dall’esterno, con recensioni sfumate in un vedo non vedo, di siepi e muretti strategici.
Naturalmente La California ha tutto quell’armamentario quasi sociale di ogni luogo: l’ufficio postale, la banca, il bar, il negozio di alimentari di lunga tradizione, il ristorantino alla moda, il distributore di benzina, il circolino politico – un po’ triste e molto grande – quasi tutti concentrati sulla strada principale.
Oltre, dove c’è la nuova SS1 Aurelia sopraelevata e la ferrovia si sfumano altre case, ma meno villette, e qualche attività agricola, vivai soprattutto.
Più a monte un’attività forse industriale del tutto abbandonata e un piccolo insediamento produttivo che fa capo a via Sandro Pertini.
Tutto questo sta in un rettangolo di terreno con il lato più lungo che non supera i 2,5 km e quello più corto di meno di un chilometro.
Ma, La California è poi abitata?
“E quando in quella stradina deserta (ora del pranzo, sentivo rumori di stoviglie, echi di radio e televisione) è uscito un uomo ed è salito in macchina, il sentimento d’essere un estrano è stato forte da mettermi in fuga”. Gianni Celati, Verso la foce, p. 30.
No, io non sono fuggito nell’incontro con gli abitanti, non mi sono nascosto dietro un angolo per spiarli meglio. Mi sono fermato ad osservarli, ad ascoltare le loro voci, i loro pensieri. Ho visto a dispetto delle villette un ozio lento, antico. Di spume bevute al bar, di giornali strapazzati, una qualche devozione ancora più antica, per la madonnina di gesso nel giardino di fronte alla chiesa. Ho visto gruppi di signore nei giardini di via Leonardo da Vinci e qualcuno sì che usciva dalle villette, anche se la maggior parte di esse era muta. Celati le chiama “casette incantate”, “idee di casa”, e forse non sbagliava.
Ma ciò che ho visto a La California è più complesso della sua Pianura Padana.
Celati nei suoi scritti prova a mettere in fila, a dare un ordine, a ciò che vede, a trarre in qualche modo regole da una campagna e di un mondo che appunto andavano frantumandosi, questo è poi il nodo del suo pensiero, giusto, corretto, col in senno del poi.
A La California tutto più sfumato: qui la rottura traumatica degli anni Ottanta-Novanta, che Celati vede bene arrivare nelle sue villette (e non solo) – la nube incombente di Chernobyl è un valido simbolo (la narrazione nel volume va a ritroso dal 1986) – non si palesa, anzi anche nella simbologia data dalla toponomastica, si stempera. Le villette ci sono, con i loro paradossi esistenziali, ma non sono fastidiose, sono quasi tenere: si capisce che in quelle di Celati c’è una violenza implicita, quella che verrà davvero, qui no, il futuro è incerto ma non traumatico.
In qualche modo il nome dato da Cipriani è a posteriori perfettamente azzeccato. La California è una terra promessa, un laboratorio sul futuro, che ci mostra nuovi modelli di coesistenza, una riscrittura dello spazio sociale.
Solo con un rapido passaggio o una sosta affrettata al bar La California sembra una caricatura.
E poi se davvero la speranza è l’ultima a morire nei pressi del Sindacato Pensionati c’è uno di quegli armadietti per lo scambio libri in strada: uno ne porti uno ne prendi… La prossima volta ci porto un libro di Celati, anche se non so con cosa potrei scambiarlo.
Credo che La California possa essere un significativo luogo di riflessione sociale, dove poter fare in modo attivo un esperimento di Public History, coinvolgendo tutte le forze sul territorio, sia pubbliche, come il Comune di Bibbona, sia private, magari partendo da queste riflessioni, affisse in piazza e discusse nei bar, per vedere sino a dove possiamo arrivare per una nuova consapevolezza dei cittadini verso il loro paese.
Nella foto un frammento della Chiesa de La California (LI)
© Simone Fagioli 2019
luciano pallini
Sei andato troppo di fretta.. ti sei perso la straordinaria pasticceria Celli, il panificio Giuntini per non dire del grande macellaio..
Forse Leonetto Cipriani lo hai liquidato un pò di corsa..
A proposito di corsa La California è luogo di nascita e di vita di Paolo Bettini:: un Palmares ciclistico da fare invidia..
Un mito, La California nostrana, da vivere… ed io ci sono stato di passaggio per Marina di Bibbona per 20 anni..