“Ai tempi della Lira costava tutto la metà!” L’abbiamo sentita tutti questa affermazione e probabilmente, in molte occasioni, l’abbiamo anche sostenuta ed avvallata.
Molti ancora oggi individuano nella scelta della moneta unica l’inizio della nostra “decrescita infelice”. Non ho la presunzione di trattare in poche righe una vicenda così annosa, che non ha, tra l’altro, una risposta univoca.
Più che demerito della moneta unica, parlerei piuttosto di incapacità da parte dell’Italia di adattarsi alla “velocità di crociera” tenuta dai suoi nuovi compagni di viaggio, almeno da quando si è scelto di avere tutti la stessa moneta di riferimento.
Quando parlo di velocità di crociera intendo quel binomio composto da produttività e salari reali, che nella stragrande maggioranza degli altri Paesi area Euro è stato virtuoso e per noi decisamente vizioso.
Un passo indietro: per anni l’Italia è rimasta competitiva sui mercati internazionali grazie a una “svalutazione competitiva” della propria valuta. Semplifico e molto: non facevamo e vendevamo il prodotto migliore, ma spesso quello più economico. E più ci cullavamo dei nostri risultati straordinari di export e più la nostra produttività, le nostre imprese, peggioravano e perdevano competitività.
Poi è arrivato l’Euro e senza poter ricorrere a questo giochino, forti di un potere economico basato sulla capillare presenza di PMI “padronali” sui nostri territori, si è deciso che lo svantaggio della ridotta produttività si sarebbe recuperato con salari mediamente più bassi.
Alzate di scudi? Nulla di tutto ciò. Come mai? Per un mix di fattori: la ridotta dimensione delle nostre PMI, un capitalismo familiare spesso mal conciliante con l’innovazione e il progresso tecnologico, un sistema di capitali gestito da alcuni poli di riferimento e per il resto piuttosto asfittico e infine una forza lavoro mediamente anziana, poco specializzata e poco istruita hanno contribuito, negli anni, a una forte resistenza all’incremento salariale.
Peccato che nel frattempo fossimo entrati in un mercato più grande, dove tutti gli attori (imprese e forza lavoro) erano e (continuano ad essere) pagati e valorizzati con la stessa moneta.
Ergo, mercati più produttivi tendono a pagare di più, ma soprattutto attraggono il personale più qualificato e/o talentuoso. I regimi fiscali agevolati introdotti (cosiddetto “rientro dei cervelli”) sono stati una risposta necessaria, ma tardiva e ancora blanda per recuperare il terreno perduto.
E così non meravigliamoci se anche quest’anno la classifica dell’Ocse su dati Eurostat ci consegna una fotografia impietosa sulla de-crescita dei nostri salari. E qui entra in gioco un convitato di pietra che è l’inflazione. In virtù del balzo considerevole dell’inflazione nel 2022, i nostri redditi medi reali sono tornati ai livelli degli anni ’90. Gli anni delle Notte Magiche e Totò Schillaci per intenderci. Peccato che di magico ci sia ben poco.
I salari reali in Italia, secondo l’Ocse, erano già scesi del 2,9% dal 1990 al 2020. L’alta inflazione generata dalla guerra in Ucraina e della veloce ripresa post Covid ha solo aggravato la nostra situazione.
Ma i bassi salari hanno un impatto diretto anche sulla crescita demografica che impatta a sua volta sulla tenuta del welfare sociale, che a sua volta ha conseguenza sulla tenuta del debito pubblico…“che al mercato mio padre comprò” (cit.)
Insomma, nel campionato della produttività e della crescita salariale siamo ultimi in classifica in Europa.
Per fortuna che nelle cose che contano, come gli attuali europei di calcio in corso, ci prendiamo una sonora rivincita e siamo ancora i “Maestri” del bel giuoco!
Perché lo siamo ancora, vero?…
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