Dall’11 al 14 settembre 2019 si terrà a Bologna il IX Congresso nazionale dell’Associazione italiana di storia urbana, della quale sono socio dal 2015.
Il tema scelto è La città globale. La condizione urbana come fenomeno pervasivo, diviso in sette macrosessioni, a loro volta suddivise in più puntuali sessioni.
Per il Congresso è stato pubblicato a fine 2018 un call for paper, al quale ho partecipato inviando due proposte per la macrosessione Immagini, forme e narrazioni della città globale.
Entrambe le proposte sono state accettate, presenterò quindi due relazioni nel corso del Congresso.
La prima, nella sessione“Comprendere” la città in uno sguardo. La veduta a volo d’uccello come marcatore del dna culturale della civiltà spaziale italiana, coordinata da Maria Beatrice Bettazzi, (docente di Storia del disegno industriale, Scuola di Ingegneria e Architettura, Università di Bologna) ha per titolo L’occhio di Horus. Immagini satellitari e filosofie di città.
La seconda, nella sessione L’esperienza fotografica della città, coordinata da Claudio Marra (docente presso il dipartimento delle Arti Visive, Performative e Mediali dell’Università di Bologna, laureato in Estetica nel 1976, al DAMS di Bologna, con una tesi dal titolo Teoria e pratica della fotografia nelle avanguardie storiche)e Federica Muzzarelli (professore ordinario di Fotografia e cultura visualepresso l’Università di Bologna) si intitola “Alice nelle città”. Modelli empirici di descrizione verso l’entropia.
Entrambe le relazioni hanno un’impostazione antropologica, riflettono su come guardaree vederela città oggi, con gli strumenti anche fisici dell’antropologo, come la macchina fotografica (in realtà rappresentata dal mio cellulare) e riflettere poi su quanto appare nelle immagini.
Ritengo di grande rilievo la moltiplicazione degli sguardi data dal proliferare di strumenti di registrazione delle immagini, aspetto che ci offre infinito materiale non solo di studio ma anche di documentazione, di catalogazione dei cambiamenti, di ogni genere di mutazione.
È abbastanza evidente che chi considera la fotografia un “oggetto” d’arte di sua esclusiva proprietà guardi con diffidenza, anzi con terrore, l’espansione della fotografia digitale, così come nella prima metà dell’Ottocento i pittori erano inorriditi dalla fotografia, ma in effetti queste polemiche di natura puramente estetica hanno davvero poco interesse (oltre che contenuto).
Per chi indaga la Storiae le mutazioni sociali la fotografia è una fonte essenziale, mezzo e non fine, strumento davvero etico e non estetico: l’idea di una bella fotoè assurda, dato che l’immagine è un contenitore e non un contenuto.
La relazione sull’Occhio di Horusvuole indagare la mutazione anche filosofica innescata dalle tecnologie digitali satellitari che ci portano sul cellulare mappe e rappresentazioni reali in 3D del nostro territorio, in uno slittamento verso una concreta rappresentazione del terreno in scala 1:1, paradosso espresso da Jorge Louis Borges (Storia universale dell’infamia, 1935) e reso popolare in Italia da Umberto Eco (Dell’impossibilità di costruire la carta dell’impero 1 a 1, 1992).
In realtà l’idea originale è del re dei paradossi, Lewis Carrol, narrata nel suo ultimo romanzo, poco noto, Sylvie and Bruno concluded(1893), dove Mein Herr esprime il nucleo essenziale del concetto, che possiamo ben capire solo oggi con le nostre collocazioni satellitari:
Finalmente abbiamo avuto l’idea grandiosa! Abbiamo fatto una mappa della campagna, in scala di un miglio per un miglio!”
“L’avete utilizzata?” chiedo.
“Non è stata ancora dispiegata,” disse Mein Herr. “I contadini hanno fatto obiezione. Hanno detto che avrebbe coperto tutta la campagna e oscurato il sole. Così adesso usiamo la campagna stessa come mappa e vi assicuro che non c’è niente di meglio.”
Ecco il nodo: il territorio è esso stesso mappa, in scala 1:1. Le immagini, i sistemi di localizzazione satellitare non ci restituiscono la mappa, ma lo spazio stesso, nel quale noi veniamo proiettati.
La localizzazione ci narra anche attimo dopo attimo le nostre trasformazioni nello spazio e nel tempo. In questo senso è significativa la connessione alla realtà aumentata, tecnologia non ancora pianamente matura, ma che implementata in oggetti quotidiani come gli occhiali ci può ancora una volta ribaltare il senso del guardare, con una trasformazione del luogo fisico assai rilevante, dato che diventa un contenitore di conoscenze quasi infinito. Già alcuni sistemi di mappatura possono restituire una visione aumentata, in cui il rapporto 1:1 (spazio-temporale) si fa sempre più marcato.
Il secondo tema (Alice nelle città, titolo mutuato da un film di Win Wenders) è più complesso e si muove su ricerche sul campo che sto conducendo da anni, dove l’indagine fotografica è strumento antropologico primario per proporre riflessioni sull’oggetto urbano. La mia idea di base è che la città sia un oggetto frattale, in qualche modo anche policentrico, dove le singole parti in modo più o meno complesso ripetono modelli e stili più ampi. Questo non significa che una parte sia il tutto, la Torre di Pisa non è Pisa, tuttavia a livello più microscopico che macroscopico ad esempio i “segni” si ripetono spesso all’infinito, in salti topografici e temporali sorprendenti (in apparenza).
I modi in cui la città si consuma, è vissuta, modificata, i modi in cui tende appunto in una irreversibile entropia, ci danno una vera e propria semiotica urbanache andrebbe accuratamente letta e interpretata per intraprendere azioni di salvaguardia, pianificazione, uso corretto, pur nella complessità del frattale, che in realtà è in costante mutamento, dato che le equazioni che lo vanno a descrivere cambiano di attimo in attimo.
La forma frattale della città crea effetti di amplificazione, per cui anche i fenomeni sociali si moltiplicano da una minima frattura o frizione, con esiti catastrofici, per non parlare poi di rischiose scelte urbanistiche, magari compiute con leggerezza in un’area periferica ma che dopo vanno a incidere, amplificate, in un “centro” a molti chilometri di distanza.
Le nostre città, tutte, sono pienamente investite dalle teorie del caos: La prevedibilità: Il battere delle ali di una farfalla in Brasile provoca un tornado in Texas?(Edward Lorenz, 1972). Se la società è liquidale città sono sicuramentefluide, nel senso fisico e matematico del termine. In qualche modo questa fluidità se non descrivibile pienamente è sicuramente osservabile nei suoi macropassaggi, utili appunto per pianificare.
Spesso mi diverto, se posso dire così, a provare a registrare con lo sguardo, magari in un viaggio più veloce del semplice muovermi a piedi, come in automobile o in treno, l’accavallarsi d’immagini che la città mi mostra, nella loro complessità dinamica, immagini che provo a descrivere in successione, cercando nessi e legami. In effetti si tratta di un velocissimo montaggio che mi mostra in tempo reale un “film” urbano dove si intrecciano miriadi di storie, con infiniti attori, dialoghi, momenti secondari, scene madre, comparsate ecc ecc ecc.
Molti di questi aspetti, pratici e filosofici, sono stati proposti dalla filmografia di Wenders, almeno fino a Lisbon story, con a volte un’assillante interpretazione della città e dei suoi abitanti, con risultati di grande valore narrativo e anche anticipatore dell’ossessione urbana che in qualche modo nel 2019 sta prendendo il sopravvento.
In questo senso se la società è liquida, la città fluida, l’insieme è schizofrenico: “L’abbandono dalla vita sociale, la sciatteria nel vestire e nell’igiene personale, la perdita di motivazione e di giudizio sono tutti elementi comuni nella schizofrenia”ci sintetizza wikipedia… le nostre città nella loro generalità non sono forse così? Ho parlato in una precedente rubrica di Pripyat e della sua mancanza di odori: le nostre città non sono forse sciattamente vestite e puzzolenti? Un giardino mal curato non vale forse come un brutto vestito?
“Ieri la città si vedeva a malapena, oggi la città si vede tutta intera”ci raccontava in modo ottimista Roberto Roversi nel 1975 tramite Lucio Dalla. A volte mi illudo che sia davvero così, poi invece nell’accavallarsi delle immagini capisco che le nostre città oggi non sono più descrivibili nella loro interezza, ovvero nei nessi della struttura frattale. Ci sono troppo attrattori straniche ne modificano il senso, per cui ciò che vediamo, che raccontiamo sono frammenti che a loro volta si scompongono nell’attimo esatto in cui tentiamo di misurarli.
Il mio indimenticato maestro, Paolo Chiozzi, negli ultimi anni ci raccontava come il Principio di indeterminazione di Heisenberg fosse pienamente applicabile anche agli studi dell’antropologo, con quel maledetto elettrone che non vuole dirci dove si trova e allo stesso tempo quanto viaggia veloce come metafora della ricerca e osservazione sul campo. Le città sono proprio così: se le vediamo non comprendiamo il loro tasso di mutazione e se riusciamo casomai a misurarlo la città che vediamo è già del tutto altra, scappata da sotto al nostro microscopio.
Ma bisogna essere ottimisti: i congressi come quello di Bologna in qualche modo gettano semi, propongono idee, misure, ci aiutano e insegnano a guardare e vedere. Servono per disegnare mappe davvero in scala 1:1, perché di queste abbiamo bisogno oggi.
Ripeto sempre che accanto a un pubblico amministratore, a ogni livello, ci dovrebbero essere un antropologo, un sociologo, un economista e uno storico.
Ma in realtà il paradosso sta in quanti pubblici amministratori saranno a Bologna dall’11 al 14 settembre 2019 per il IX Congresso nazionale dell’Associazione italiana di Storia urbana, ad ascoltare voglio dire, non a mostrarsi.
Foto: Firenze, © Simone Fagioli 2019
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