Poiché un secolo non comincia quando comincia e non finisce quando finisce.
Leonardo Sciascia
Nell’anno appena trascorso sono usciti due libri che mi viene spontaneo definire gemelli: Antitotalitari d’Italia di Massimo Teodori e I miei eroi. Un amore testardo e duraturo. Hannah Arendt, Albert Camus, George Orwell di Pierluigi Battista.
Il lavoro di Teodori è, come lo definisce l’autore stesso, “un memoir senza pretese sistematiche”. Si tratta infatti di un agile excursus su una galleria di personaggi, da Salvemini e Sturzo a Sciascia e Montale, accomunati non dalla militanza in una parte politica ma dall’intransigente difesa di ciò che rende possibile l’agibilità politica e la dimensione della cittadinanza: la democrazia e la società aperta, contro ogni forma di totalitarismo. Seguono alcune considerazioni sulla scomparsa, io direi piuttosto riduzione ai minimi termini ma non scomparsa, per fortuna e per merito anche di libri come quelli di cui stiamo parlando, di ogni residuo antitotalitario dalla scena politica italiana. Concludono il tutto due brevi saggi su George Orwell e Nicola Chiaromonte.
Battista invece ci pone di fronte a una sorta di autobiografia politico intellettuale e affronta lo stesso argomento su dimensione europea descrivendo i tre “eroi” citati nel titolo con le loro debolezze e contraddizioni senza però mai perdere di vista ciò che permette di definirli tali: una vita dedicata alla difesa della libertà e della dignità umana e, sono parole sue, l’aver “capito subito che tra la costruzione cruenta di un’umanità redenta e il filo spinato di un lager la distanza era minima”, fatto da cui discende la loro adesione alla sinistra antitotalitaria che in quel clima politico li condannò, insieme ad altri irregolari ricordati nel testo, “da Mary McCarthy a Simone Weil, da Nicola Chiaromonte a Walter Benjamin fino ad Arthur Koestler”, ad una solitudine esistenziale vissuta tra gli insulti e le calunnie di “mosche cocchiere” e “utili idioti”.
Le due letture offrono uno sguardo su quel particolare aspetto del “secolo breve” che porta in primo piano lo scontro militare e culturale tra opposti totalitarismi e tra questi e la democrazia liberale lungo la seconda guerra europea dei trent’anni (1914 – 1945) e la guerra fredda (1945 – 1989 o 1991).
Si suol dire anche che un libro è sempre testimone del suo autore e del suo tempo. Riguardo agli autori c’è ben poco da dire essendo ben note la loro attività in difesa della società aperta e dello stato di diritto contro dittatori e aspiranti tali, di ogni fede e ogni colore, come quella dei personaggi di cui raccontano. Sarebbe utile invece soffermarsi un po’ sull’aspetto di testimoni del tempo, cercar di capire cosa questi libri dicono del loro tempo che poi è anche il nostro, i giorni che stiamo vivendo. Perché se un giornalista e uno storico, a pochi mesi di distanza uno dall’altro decidono, ma io direi anche sentono il dovere civico, di pubblicare due lavori dedicati a chi ha fatto della lotta ai totalitarismi una ragione di vita non sarà solo per un elogio tardivo ma sarà piuttosto perché sentono la mancanza di queste persone, di quell’attaccamento ai valori della democrazia, di quel senso critico e di quella determinazione che hanno permesso loro di vederci chiaro anche nell’ora più buia e di combattere magari anche “col solo rimanere ritti nell’abdicazione universale” come scriveva Filippo Turati ad Anna Kuliscioff. Lo conferma chiaramente Teodori nelle prime righe dell’introduzione:
Speravo di non dovere più parlare di totalitarismo e antitotalitarismo in Europa dopo la fine del nazismo, del comunismo e del fascismo. Ma l’irruzione terroristica dell’integralismo islamico e la guerra dell’autocrate Putin mi sollecitano a riprendere il discorso sul ruolo degli antitotalitari nella storia della Repubblica.
Se così stanno le cose dobbiamo dedurne che il Novecento non è ancora finito? Dipende dal punto di osservazione e da quale aspetto consideriamo preminente o più utile ai fini della nostra ricerca. Certamente se consideriamo le vicende dei totalitarismi la definizione di secolo breve sarebbe andata benissimo fino a qualche anno fa, magari considerando il regime nord coreano, malgrado la sua tragicità, un qualcosa tra il folkloristico e il farsesco e facendo finta di credere che la Cina, avendo abbandonato di fatto il comunismo, si sarebbe prima o poi incamminata verso forme di democrazia. Oggi però guardando quel che succede a Phnom Penh, a Pechino, a Mosca e a Teheran dobbiamo riconoscere di essere ancora in pieno Novecento, dato che sistemi totalitari non sono scomparsi, si ripresentano con volto nuovo ma identici ai predecessori nella sostanza, costituiscono la tragedia dei popoli a loro sottomessi e ci ricordano che la democrazia è sì il bene più grande che una generazione può ereditare da quella che l’ha preceduta ma non è un dato definitivo, acquisito una volta per tutte, è una religione civile che va praticata quotidianamente, difesa e, soprattutto, meritata.
Teodori dice di essere stato sollecitato a riprendere il discorso dal fondamentalismo islamista e dalle politiche di Putin senza mostrare il minimo dubbio sulla loro appartenenza alla famiglia dei nemici della società aperta. In effetti sono queste le forme e i volti con cui si presenta oggi il totalitarismo.
Si potrebbe obiettare sulla correttezza di considerare l’islam radicale, sia scita, nel caso dell’Iran, sia sunnita, per quanto riguarda l’Isis e il Califfato, nella famiglia dei totalitarismi che hanno insanguinato il Novecento essendo questi gli ultimi figli della variante nichilista della modernità europea, mentre il primo viene associato, un po’ troppo in fretta, ad un mondo premoderno e a noi estraneo. Però, a supporto delle affermazioni di Teodori ci sono analogie più che evidenti nella gestione del potere, nelle strategie di indottrinamento e nel destino riservato a oppositori e dissidenti, situazione ben sintetizzata da Maurizio Molinari (Il Califfato del terrore): “Il ruolo del Califfo come sovrano assoluto, fonte unica della verità e della giustizia, sovrano incontestabile della vita e della morte, evoca i totalitarismi novecenteschi.”
Non si tratta certo di somiglianze casuali. Particolarmente illuminanti in proposito sono gli studi di Stefano Fabei (Il fascio, la svastica e la mezzaluna), di David Dalin e John Rothmann (La mezzaluna e la svastica) e Hamed Abdel-Samad (Il fascismo islamico) che mettono in evidenza i rapporti tra i padri del moderno fondamentalismo islamico e Hitler e Mussolini. È alla luce di questi legami, di questa contiguità politica e culturale, di cui l’antisemitismo è l’aspetto più eclatante e tragico ma non l’unico, che già nel 2003 Paul Bernan (Terrore e liberalismo) di “Dissent”, la più autorevole rivista della sinistra americana, sosteneva che “malgrado Bush e Rumsfeld” la guerra contro il terrorismo fondamentalista è la prosecuzione della Seconda guerra mondiale, in quanto entrambe varianti della guerra tra totalitarismo e libertà.
D’altra parte molti studiosi hanno interpretato le ideologie totalitarie come religioni secolari o come secolarizzazioni di una teologia della storia. Ricordiamo Emilio Gentile che, in Le religioni della politica, contrappone la “religione politica” dei totalitarismi alla “religione civica” delle democrazie. L’atteggiamento di Amin al-Husayni, Mufti di Gerusalemme, che incentivava l’arruolamento dei suoi fedeli nelle SS, e, dal 1941 per radio da Berlino, proclamava la jihad contro le potenze “anglo giudaiche”, appoggiava la “soluzione finale” e auspicava “un nuovo ordine mondiale”, si specchia oggi nell’alleanza tra l’Iran degli ayatollah e la Russia di Putin.
Analogie e assonanze che dimostrano quanto sia vera l’affermazione di Angelo Panebianco (Il terrore che sfida il mondo, “Corriere della Sera”, 26/03/2024) secondo cui “con l’invasione dell’Ucraina apparve chiaro a tutti che il mondo aveva fatto un salto indietro nel futuro”.
“Un salto indietro nel futuro” anche perché i signori del terrore hanno o stanno per avere l’atomica, usano i droni e la guerra informatica ma sono a loro volta terrorizzati dalla salma di Navalny e dai capelli scoperti di Masha.
Putin in particolare nella costruzione della sua visione del mondo rivaluta, dell’esperienza sovietica, solo periodo staliniano per poi risalire all’impero zarista, quasi a ricalcare la storia politica e istituzionale della sua Russia e del suo regime: da autocrazia a stato totalitario fondato sull’ideologia del Russkij mir, vicino alla Terza Roma per i contenuti e al Comintern per i metodi.
Nulla di nuovo sembrerebbe, ma in realtà una novità c’è, anche abbastanza evidente. Mentre di solito la formulazione dell’apparato ideologico viene prima della presa del potere, nel caso del putinismo osserviamo il procedimento opposto prima la presa del potere, quindi la trasformazione della Russia in una feroce autocrazia basata su bassi costi dell’energia e sulla violenza dei siloviki e delle mafie e solo in un secondo tempo la scelta dell’ortodossia quale ideologia del regime e strumento di costruzione e di consolidamento del consenso. Aspetto senz’altro interessante e meritevole di una trattazione approfondita ma che non impedisce l’inserimento del regime di Mosca tra i membri della famiglia totalitaria, apparentati tutti dalla presenza di mobilitazione ideologica, consenso di massa, concentrazione del potere nelle mani di un singolo o di un gruppo ristretto e tentativo di annientare ogni forma di dissenso. Soprattutto accomunati dall’identica e irriducibile avversione ai diritti civili e politici, dall’identica aspirazione allo stato etico e dalla conseguente pretesa di guidare per mano tutti gli uomini, di irregimentarli in entità viste come negazione dell’individuo: la patria, lo stato , la classe, il partito, la comunità dei fedeli e via dicendo.
Sappiamo tutti come la visione dell’Occidente decadente, corrotto e privo di valori sia stato un cardine della propaganda zarista, comunista, nazifascista e oggi del putinismo e dell’islam radicale. Da qui l’immancabile antisemitismo, l’aspirazione a cancellare l’eresia delle “false libertà borghesi”, delle “plutocrazie giudaico massoniche” schiave del “grande Satana”, che poi altro non sono che le nostre società aperte dove possiamo passare le serate a dibattere di politica, dove si può criticare il governo, ridere del potere, esprimere opinioni, farsi una birra, scrivere e leggere libri, fare l’amore come ci pare e con chi ci pare, senza finire in carcere, essere colpiti da una fawta o da una iniezione di polonio. Mentre l’alternativa che loro ci offrono sarebbe un mondo in cui si muore per aver chiamato guerra la guerra o per un capello fuori posto (letteralmente).
Venti anni fa André Glucksmann (Occidente contro Occidente) scriveva:
Il fratello islamico che sacrifica gli altri e se stesso è il gemello del cekista bolscevico, il duplicato dell’”eroe fascista” che bestemmia “viva la morte”! Saddam Hussein è il clone di tutti e tre.”
Oggi sembra che i cloni si stiano moltiplicando e trovino facilmente schiere di entusiasti ammiratori. Sì, il Novecento sarà ancora lungo…
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