Il tragico momento di guerra fra arabi e israeliani ha causato un’altra morte nella battaglia di Jenin, la capitale del terrorismo: un membro dell’unità antiterrorismo israeliano di 43 anni, Noam Raz, infermiere coraggioso, padre di sei bambini, ha perso la vita in una pioggia di fuoco, uno scontro con vari terroristi che non hanno niente a che fare con la vicenda che domina le cronache in questi giorni. Anche Shirin Abu Akleh è stata uccisa a Jenin mentre le forze israeliane cercavano di fermare i terroristi che a decine vi si annidano, fra loro quelli che hanno compiuto gli ultimi attacchi con 19 civili morti. Shirin, sulla linea del fuoco, è stata colpita, e non si può affermare con certezza da chi. I palestinesi accusano Israele, e la loro versione, nonostante i comprovati spari indiscriminati in zona dei loro miliziani, viene accolta e ripetuta dai giornali, mentre Israele nega e chiede che si possa esaminare il proiettile in un’azione congiunta.
Chi tuttavia si chiede perché i palestinesi rifiutino questa semplice richiesta per venire a capo della morte di Shirin Abu Akleh, la risposta è del tutto evidente: la dà il funerale di massa tenuto ieri a Gerusalemme e la risposta della stampa internazionale. Perché mai infatti andare a cercare risposte oggettive, quando quella soggettiva dell’entusiasmo della folla e l’adesione della stampa alla causa palestinese, la fede totale nell’accusa di perfidia e di omicidio nei confronti di Israele e dei suoi soldati è stata già accettata creando una situazione insopportabile e temibile per Israele, la sua gente, il suo governo, le sue forze dell’ordine? Mentre si approfondisce l’aggressività araba e internazionale contro Israele? Ieri per onorare la giornalista di al-Jazeera che aveva fatto della lotta palestinese la sua battaglia di vita, hanno suonato tutte le campane della città (Abu Akleh era cristiana, nata a Betlemme), le strade della capitale di Israele si sono riempite di bandiere palestinesi (mentre sventolare una bandiera israeliana sarebbe stato certo letale), la folla in massa ha gridato slogan di distruzione di Israele e di morte agli ebrei.
Ma il titolo più diffuso da ieri è quello per cui si biasima, dal New York Times al Guardian, il fatto che i poliziotti israeliani, anche loro investiti dalla rabbia della folla, hanno cercato di togliere la bandiera palestinese dalla bara della giornalista uccisa e di mantenere l’ordine allontanando gli attivisti più agitati. I poliziotti hanno voluto bloccare l’uso della bandiera palestinese come vessillo pubblico di lotta sul territorio israeliano e così facendo sono venuti a uno scontro che ha sconvolto il corteo e quasi rovesciato la bara. Uno spettacolo molto spiacevole e triste, la bara è oggetto sacro che deve restare a disposizione solo del dolore e non della politica e tantomeno della violenza. Ma è stata gigantesca l’utilizzazione della morte della giornalista come bandiera strategica di odio anti-israeliano da Gerusalemme a Jenin, mentre le autorità palestinesi rifiutano di condividere una ricerca effettiva. La richiesta viene fatta con umiltà fin troppo evidente da parte delle autorità israeliane. Ma, appunto, perché mai i palestinesi dovrebbero accettare, dato che la battaglia l’hanno già vinta sui media e sul territorio?
Tutti i dati di fatto vengono rifiutati dal giornalismo che accetta la narrativa anti-israeliana, ignora quanti terroristi sono usciti da Jenin e la necessità di agire per garantire la sicurezza dei cittadini israeliani. La giornalista di al-Jazeera è caduta come molti altri purtroppo, sulla linea del fuoco, ed è terribile. Israele è il Paese che più di ogni altro vuole sapere la verità, dato che tutti comunque lo accusano, e anche eventualmente, se per caso fosse colpevole, userebbe, giusto o sbagliato che sia,, le sue leggi e i suoi severi tribunali, come ha sempre fatto, persino contro i suoi soldati. I palestinesi, certamente no. In ogni caso, la povera giornalista è stata uccisa, e quello che abbiamo visto ieri più che un funerale è stato l’inizio di una guerra di immagine e di forza.
(articolo già pubblicato dal quotidiano Il Giornale e ripreso con il consenso dell’autrice)
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