Con una lunga esperienza nel mondo confindustriale, Francesco Caracciolo, esperto d’imprese e di sviluppo economico, consigliere di amministrazione di Ecole e del Digital Innovation Hub della Lombardia, è attualmente Direttore di Confindustria Pavia. L’abbiamo intervistato per vedere come reagiscono alla crisi territori, come Pavia, già caratterizzati da processi di innovazione e cambiamento:
Come si poteva definire lo stato dell’economia della provincia prima della tragedia del coronavirus? Quali i suoi punti di forza e debolezza? E quanto forte è stato il colpo del blocco delle attività?
Fragile, un po’ come il resto del Paese. Aziende efficienti e innovative ma relativamente poche perché il tessuto economico è uscito ridimensionato dalla profonda crisi del 2008. Il lockdown è stato lungo e doloroso. Ha messo a rischio il posizionamento delle imprese locali nelle catene globali del valore. Mentre le nostre imprese erano chiuse, le concorrenti tedesche, persino spagnole, continuavano a produrre, quindi si sono perse commesse e clienti che sarà molto difficile recuperare. Meccanica e calzaturiero, due settori storici del territorio, sono rimasti colpiti pesantemente. Di contro, il territorio vanta eccellenze nelle filiere dell’industria della salute e dell’agroalimentare, che hanno proseguito ovviamente le attività e che costituiscono grandi opportunità, in prospettiva. Cambieranno molte cose nei comportamenti dei consumatori e nei mercati. Quindi bisognerà riposizionarsi e cogliere le occasioni. Questa crisi ha fatto emergere con prepotenza una grande voglia di tornare a lavorare, che non si vedeva da tempo. Potrà essere il nostro principale punto di forza
Quale è stato il ricorso agli ammortizzatori sociali? Le risorse stanziate sono adeguate? E le procedure sono complicate o sono state rapide ed efficaci?
E’ stato massiccio e ha funzionato bene. In massima parte, le imprese hanno anticipato le risorse. Non deve stupirci. Questo tipo di politiche sono ben collaudate in Italia. Manchiamo invece nelle politiche attive. E avremo dunque problemi perchè, inevitabilmente, la cassa integrazione si esaurirà prima degli effetti recessivi che il calo della domanda genererà nei prossimi mesi. Stiamo purtroppo mancando una grande prova. Abbiamo varato misure di politica economica quasi esclusivamente assistenzialiste e compensative. Il decreto rilancio sembra più un Milletoppe. Ma non tapperemo tutte le falle, purtroppo, e nel frattempo la scialuppa sarà appesantita dalla crescita del debito pubblico. Investire sul rilancio è un’altra cosa, significa digitalizzazione, formazione, opere pubbliche. Speriamo nel Recovery Fund europeo.
Il primo impatto sulle aziende è la scomparsa della liquidità. Come si comportano le banche sia di fronte alle richieste 25.000 euro garantiti al 100% dallo stato sia per importi superiori con garanzia dello stato al 90%, con valutazione del merito di credito da parte della banca.
Dopo una prima fase di difficoltà organizzative, adesso pare che le misure inizino a funzionare. Le banche sanno benissimo che non possono oggi aspettarsi dalle imprese business plan triennali. E’ determinante che non ci sia una crisi di liquidità nel sistema economico e questo richiede un rapporto collaborativo banche- imprese. Ma non basterà, se la domanda non ripartirà. Ecco perché servono più investimenti sul futuro. Tutti gli operatori potranno recuperare più facilmente fiducia se vedranno una politica economica di rilancio degli investimenti pubblici e privati.
Cosa ne pensa dell’ipotesi d’ingresso dello stato come azionista nelle imprese?
Non la vedo come una cosa positiva. Certo, potrà servire in qualche caso per contenere la recessione ma non penso che un’economia con più Stato sia la soluzione alla crisi e che accresca efficienza e capacità di innovazione. Non dimentichiamo quanto corruzione e malaffare abbiano fatto male all’economia italiana. L’IRI si chiamava Istituto per la Ricostruzione Industriale proprio perché c’era allora da ricostruire l’industria; svolse una funzione storica importante. Adesso siamo la seconda industria europea, dopo la Germania, non c’è da ricostruire, bisogna evitare di distruggere. Quello che si può e si deve fare è rafforzare la patrimonializzazione delle imprese.
Ci sono imprese che hanno continuato a lavorare anche durante il lockdown? In virtù di codici ATECO o di richiesta alle prefetture ? e con quali precauzioni da adottare? In termini di costo quanto possono incidere queste misure?
Da subito le imprese hanno adottato rigoroso protocolli sanitari, concordati coi sindacati. E hanno funzionato bene, perché non c’è notizia di focolai sviluppatisi in aziende industriali. I focolai ci sono stati purtroppo negli ospedali e nelle RSA. Nelle imprese industriali, laddove vi sono stati casi di lavoratori ammalati, si sono tracciati i contatti e si è evitato il diffondersi del contagio. E questo, nonostante le tante difficoltà, perché reperire le mascherine e gli altri dispositivi di sicurezza individuale è stato un’odissea. Certamente, le misure di sicurezza sanitaria hanno comportato dei costi aggiuntivi ma la sicurezza dei lavoratori è un valore primario per le imprese, che non si sono tirate indietro, anzi, in molti casi, hanno adottato misure ulteriori rispetto a quelle previste dai protocolli, e senza contributi di alcuna natura. Ho raccolto parecchie proteste dalle imprese sul bando Invitalia che concedeva contributi pubblici per le spese per la sicurezza sanitari. C’erano disponibili solo 50 milioni, con il meccanismo del click day, e dopo solo un’ora erano state presentate domande per un miliardo. Ma si può fare cose del genere? Suonano come beffe per chi si fa in quattro, tra mille difficoltà, per continuare ad assicurare lavoro. Comunque, le imprese hanno fatto davvero uno sforzo straordinario. E credo fosse interesse strategico del Paese fare tutto il possibile per mettere in sicurezza l’industria e salvaguardare il patrimonio economico italiano, consentendo di proseguire la propria attività a tutte quelle che erano in grado di assicurare standard di sicurezza elevati. E’ stato invece un errore decidere chi dovesse chiudere o tenere aperto in base ai codici ATECO. Perché i codici ATECO andavano bene per l’economia del secolo scorso. Oggi le filiere sono fortemente interconnesse. E’ stato quindi giocoforza fare ricorso alle deroghe con dichiarazioni alle Prefetture. Un meccanismo che in definitiva ha funzionato bene e ha garantito un po’ di flessibilità.
Sabino Cassese, prestigioso giurista italiano, ha scritto “C’è unanimità di vedute: la ripresa, nella fase 2, ci sarà se ci liberiamo della burocrazia”. Si registrano segnali che si stia marciando in questa direzione oppure si prosegue imperterriti con vecchie abitudini, cioè legiferando per semplificare si complica ancor di più?
Il coronavirus è stato come un grande stress test per il sistema Paese e ha purtroppo fatto venire a galla tutte le nostre inefficienze: limiti organizzativi nella sanità pubblica anche dove in grado di esprimere eccellenza nelle cure, contrasti Governo Regioni, provvedimenti poco chiari e presi all’ultimo tuffo, ritardi nel tracciamento dei contagi e nei tamponi, comunicazioni tardive e contraddittorie. La start up innovativa Writexp ha calcolato che le norme sull’emergenza sanitaria potevano essere scritte in modo più chiaro con un quarto di parole in meno semplicemente usando correttamente la lingua italiana. Cassese ha ragione da vendere. Per rilanciare il Paese bisogna modernizzare la PA: meno norme e più chiare, digitalizzazione, organizzazione. Più efficienza organizzativa e meno cavilli da Azzeccagarbugli. I vari DPCM e ordinanze regionali, con le autodichiarazioni che hanno causato così tante giustificate ironie, non sono certo modelli da seguire mentre invece la straordinaria operazione del ponte di Genova dimostra che è possibile essere veloci e efficienti.
Ci aspettano cambiamenti radicali nella organizzazione del lavoro per non dire nella stessa configurazione di impresa: dalla diffusione dello smart working alla’impiego sempre più ampio della robotica e delle risorse messe in campo dall’intelligenza artificiale: che impatto potrà venirne su occupazione e competenze richieste?
Già da tempo è evidente che i profondi cambiamenti di quella che è stata definita Industria 4.0 richiedono competenze e modelli organizzativi nuovi. Questa crisi sarà un acceleratore del cambiamento. Siamo stati obbligati ad adottare in forme massicce lo smart working, che prima era sottoutilizzato e molte imprese ne hanno sperimentato i vantaggi. E’ cresciuto l’ecommerce e tutti i canali distributivi verranno ripensati. Più in generale, è la persona che sta al centro delle strategie di impresa, con le sue competenze, i suoi valori, la sua capacità di imparare, di crescere, di adattarsi, di collaborare. Questo significa anche investire nel cambiamento del nostro sistema di istruzione e formazione: potenziamo l’alternanza scuola lavoro e tutte le forma di collaborazione tra le istituzioni formative e le imprese. Le competenze tecnologiche e organizzative delle imprese, ad esempio, potevano aiutare le scuole ad aprire prima, mentre invece apriranno per ultime e non è un bel segnale.
Rispetto ai mercati internazionali, potranno esserci sui mercati di sbocco? E sulle filiere delle forniture? Si potranno registrare casi consistenti di reshoring?
C’è da attendersi una ridefinizione delle catene del valore, con l’obiettivo di ridurre i rischi di blocchi nelle forniture. Questo potrebbe avvantaggiare i sistemi Paese che si sono rivelati più efficienti. E’ possibile che ci sia una spinta all’integrazione verticale e, in questo contesto, forse anche qualche caso di reshoring ma non credo di particolare rilievo. Più facile che vi sia un’ondata di acquisizioni, in particolare da fondi di investimento, come già accaduto a seguito della crisi del 2008. Molto dipenderà da come si evolveranno i rapporti USA Cina. Se proseguiranno le tensioni commerciali, ci potrebbe essere una maggiore integrazione dell’economia europea. Nell’economia, una globalizzazione meno spinta porterà più Europa, non più sovranismo.
Quale ruolo nell’economia della provincia, nel suo tessuto sociale e nel delineare il suo futuro avranno l’antica èe prestigiosa università ed il suo Policlinico?
Fondamentale. Credo molto nell’attrattività di Pavia. L’università non ha solo una grande storia ma esprime attualmente competenze scientifiche di valore assoluto ed è un’università generalista, che rende cioè possibile quella cooperazione tra discipline diverse che è oggi fondamentale, come ha dimostrato anche l’emergenza coronavirus. Il Policlinico San Matteo è stato semplicemente eroico, ha reso Pavia una delle capitali mondiali della lotta al virus, in termini di cura, di ricerca, di conoscenza. E poi Pavia ha un altro grande fattore di attrattività: è una grande area verde a 30 km da Milano, la città metropolitana più dinamica del Paese. Le nostre piccole e medie città possono essere un luogo di sviluppo ideale per l’industria 4.0 e per l’economia circolare.
Quali le priorità per gli investimenti pubblici? E piccole opere e grandi interventi sono in conflitto tra loro? Prima la manutenzione e poi il nuovo? E con quali regole?
Gli investimenti pubblici sono necessari per modernizzare il Paese, non solo perché spingono la domanda. Le infrastrutture digitali sono ancora indietro in tante zone. Lo abbiamo tutti visto in questi mesi di smart working, di didattica a distanza, di videoconferenze. Sono lacune da comare assolutamente. In questo territorio abbiamo poi un’autentica emergenza ponti sul Po. Vecchi cent’anni, quasi tutti ormai chiusi ai camion merci. Emblematico è il Ponte della Becca, alla confluenza tra il Po e il Ticino. E’ ormai a fine corsa, i costi di manutenzione sono così alti che è vantaggioso costruirne uno nuovo. Ora c’è finalmente un progetto di fattibilità. Mi accontenterei che fosse costruito in un tempo doppio rispetto a quello di Genova. Il rilancio può essere aiutato anche da opere simbolo, che motivino, incoraggino.
Come giudica le azioni messe in campo dalla Regione Lombardia e dalle istituzioni locali per sostenere le imprese del territorio in questa tempesta?
Dobbiamo prendere atto che siamo stati tutti colti impreparati ed è stato giusto concentrare tutti gli sforzi sul sistema sanitario, che è stato messo a dura prova: non finiremo mai di ringraziare tutti gli operatori sanitari che hanno davvero risposto in modo magnifico. Preferisco quindi dire cosa ci possiamo aspettare adesso: un’organizzazione efficiente che contenga il rischio di una ripresa del contagio e scongiuri l’eventualità di nuove zone rosse, attraverso un corretto uso di tecnologie, tracciamenti, test; e poi un investimento sul futuro, perché la Lombarda è e vuole restare, terra di impresa, di innovazione, di cultura del lavoro diffusa. Una reazione di orgoglio, insomma, che veda collaborare pubblico e privato e che si fondi su quel senso di comunità che è stato risvegliato dal dover affrontare tutti insieme questo nuovo nemico del coronavirus. Sarà ancora dura ma sono sicuro che prevarrà la voglia di riscatto.
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