Il 26 giugno 1920, Filippo Turati pronunciò alla Camera dei deputati un pregnante discorso, ricco di proposte e di progetti per la ripresa dell’Italia dopo la guerra, vinta, ma con enormi problemi economici e sociali da affrontare.
Mi limiterò a qualche citazione perché tra non molto verrà pubblicato un saggio del prof. Maurizio Punzo, autorevole storico del socialismo,
‘Rifare l’Italia’ contiene considerazioni sul ‘demagogismo’ “un figlio cattivo”, dei partiti non solo di opposizione, ma anche di governo e dei conservatori. “La politica non è questo…non è nell’agguato, non è negli intrighi, non è nell’arrembaggio ai ministeri…è nell’interpretare l’epoca in cui si vive, nel provvedere a che l’evoluzione virtuale delle cose sia agevolata dalle leggi e dall’azione politica…”, e ricorda che la politica è una tecnica. “…La schiavitù cessa quando la spola comincia a camminare da sé sul telaio. Il socialismo è nella macchina a vapore, più che negli ordini del giorno, è nella elettricità, più che in molti nostri congressi…”
Affronta problemi concreti sottolineando che l’Italia, nazione povera, “…non può permettersi il lusso di tre aeronautiche fra loro indipendenti, una militare, una civile e una marinara…L’aeronautica civile, particolarmente, creata con decreto del giugno 2019, ha sperperato in meno di un anno tantissimi milioni… quella militare ha dimostrato anche di recente a Valona la propria assoluta inefficienza…”.
Critica gli accordi (economici) di Versailles, che equipara alla “proprietà privata applicata a tutto il mondo…un’egemonia che renderebbe ‘impossibile’ il libero scambio, l’abolizione delle dogane e l’unità monetaria…”.
Per superare la crisi postbellica dice che il rimedio radicale è nella restaurazione economica…”Industrializzare i servizi, industrializzare l’Italia…per superare le difficoltà del Mezzogiorno…”
Suggerisce la salvaguardia dei boschi e il rimboscamento, dopo la razzia per le necessità belliche. Offre, con dati precisi, le proposte per valorizzare i terreni nel Sud Italia, indica la ricchezza idraulica dei monti italiani (citando l’Omodeo, grande esperto) e sollecita un decisivo impegno per l’elettrificazione.
Il discorso è anche articolato, nelle proposte, secondo le possibilità indicate, regione per regione, area per area.
Le premessa di questo programma sta anche in una nota di Anna Kuliscioff (18 maggio 1920): “Sai cosa potrebbe essere un vero reagente in tutta la Camera e nel partito? Un tuo discorso sulle dichiarazioni del governo in cui tu esponessi nelle linee generali la messa in valore delle ricchezze italiane…”
Quello che sorprende ancora oggi del discorso di Turati alla Camera, nel giugno 1920, è la modernità delle sue impostazioni e delle sue valutazioni.
Persino Togliatti – che alla morte del fondatore del PSI lo aveva presentato come antimarxista e “…tra i più disonesti dei capi riformisti, poiché fra i più corrotti dal parlamentarismo…” – al V° congresso del PCI, primo dopo la Liberazione, indicò ai congressisti per la ricostruzione quel programma (precisando che bisognava fare meglio e più seriamente, essendo comunque il prodotto di un socialdemocratico).
Qualcuno ha voluto vedere in questo discorso addirittura una anticipazione della programmazione degli anni ’60 all’avvio del centro sinistra. Una politica economica di convivenza tra l’economia privata e l’intervento coordinatore dello stato. Una linea che auspicava un’alleanza tra il proletariato e la borghesia produttiva, per rafforzare la democrazia e l’economia nazionale, in vista dello sbocco verso una società socialista democratica.
Turati
Turati non era liberista, era socialista, anche se il suo marxismo era positivista, pratico, etico e critico, mai settario.
Soprattutto fu un capo politico che operò per modificare la realtà, per educare le masse abituandole alla lotta democratica, combattendo l’analfabetismo e i pregiudizi, contrastando l’alcolismo, insegnando la solidarietà.
Le scelte ideologiche di Turati, della Kuliscioff e dei riformisti rifuggivano dalle interpretazioni deterministe, per le quali l’avvento del socialismo, date certe condizioni, era automatico.
Nel suo programma ‘Agli elettori del collegio di Milano’, per le elezioni del novembre 1919, parla del superamento dello stato borghese per trasformarlo ‘da governo degli uomini a governo delle cose’(insegnamento dell’ultimo Engels) fuori dal visionarismo storico che rifiuta il riformismo perchè fa interventi parziali e graduali.
La sua valutazione su Mussolini e sul fascismo nel 1920, nel 1921 e nel ’22 se non poteva essere ancora quella che diede successivamente, dimostrava che egli capiva più di altri il pericolo imminente. D’altra parte il fatto che Giacomo Matteotti, il limpido oppositore del fascismo, fosse il segretario del Partito Socialista Unitario di Turati e dei riformisti ne è la prova. Era nota poi la sua diffidenza nei confronti di Mussolini sin dai tempi in cui capeggiava i massimalisti.
Inoltre autorevoli fondatori del Partito Comunista d’Italia avevano considerato il fascismo un fenomeno passeggero.
Nel febbraio del 1922 in una lettera a Ugo Guido Mondolfo, Turati scrive: “…Bisognerebbe andare al governo, ossia essere sputacchiati dall’Avanti! e rompere il partito…ora tenteremo di arginare la piena, di puntellare le frane, ma un rimedio organico e costruttivo non esiste più. Siamo diventati troppo deboli e troppo buffi. La politica consiste nel vedere le cose un quarto d’ora prima: noi le vediamo quando, come il cavaliere della leggenda, andiamo combattendo e siamo morti…”
Non parliamo poi della capacità che ebbe di vedere quasi subito gli aspetti negativi e le nefandezze della rivoluzione leninista, aiutato in questo dalle testimonianze di amici e autorevoli personaggi che erano in corrispondenza con lui e con la Kuliscioff.
Anna gli scrive il 25 aprile del 1919 dopo un incontro in Italia con la moglie di Plechanov: ‘…quel che essa racconta pare una fantasia macabra di alienati. Dopo la morte di Plechanov in Finlandia tornò a Pietrogrado e fu testimone di tutte le infinite atrocità commesse dai leninisti…e della demoralizzazione, della corruzione e della paralisi assoluta che portano in mezzo a tutto il popolo nelle campagne e nelle province…’.
Filippo Turati in un discorso al Congresso di Bologna del 1919, prima di quello di Livorno aveva detto, sulla Russia leninista: ‘… la miseria, il terrore, la mancanza di ogni libero consenso (basti dire che in Russia non esiste libertà di stampa, il diritto di riunione è conculcato, il lavoro è militarizzato e i più presi di mira dalla persecuzione governativa sono i socialisti di tutte le scuole) e infine la pretesa irrazionale di forzare l’evoluzione economica – tutto ciò ha portato e porterà ineluttabilmente lo scoraggiamento di qualsiasi attività produttiva e così paradossalmente un Paese così vasto e ricco di risorse… anziché diventare antesignano di una nuova civiltà dovrà soffrire…decenni di patimenti e di povertà…mentre fin d’ora è costretto creare una immensa macchina militaristica che è un pericolo permanente…’.
Insisto nel richiamare l’attenzione, sulla modernità di molte sue valutazioni e comportamenti.
È nota a tutti la sua posizione dopo Caporetto.
Egli, pacifista e neutralista, seppe trovare le parole giuste per far uscire i socialisti dall’isolamento in cui erano finiti, soprattutto per l’intransigenza dei massimalisti che avallava le accuse di sabotaggio verso la patria. Purtroppo la saggezza di Turati, capo di una minoranza, non fu sufficiente a impedire gli atteggiamenti estremisti e irresponsabili dei massimalisti nel dopoguerra. Queste furono una delle concause del successo dei nazionalisti e del fascismo, verso il quale andarono cittadini della classe media che avrebbero potuto benissimo riconoscersi nel socialismo democratico, e anche molti proletari scontenti del velleitarismo dei loro capi.
Come sempre nella sua vita e nella sua attività egli era attento ai disegni strategici, ma pronto agli interventi più semplici e modesti, se utili Correggeva le bozze prima della stampa della Critica Sociale, così come non trascurava di seguire le vicende minori che riguardavano il partito e le sue organizzazioni collaterali.
Mi riferisco al suo interessamento, con il movimento cooperativo (vicino ai riformisti) all’iniziativa italiana, suggerita dalla Gran Bretagna, di penetrazione economica nel Caucaso, ben vista in un primo tempo, nel 1919, dai governi Orlando e Nitti.
Armenia e Georgia avevano governi locali controllati dai menscevichi, abbastanza disponibili verso l’Italia. In quell’area c’erano risorse minerarie importanti. Verso l’Armenia c’era tra l’altro una forte simpatia dell’opinione pubblica italiana.
Una missione (un po’ tardiva rispetto alle iniziative del mondo economico) capeggiata dal senatore Ettore Conti e della quale faceva parte anche Enrico Toeplitz, incoraggiata da numerosi gruppi industriali tra i quali Pirelli e Volpi da tempo interessati a quella regione che avevano costituito una compagnia per il Caucaso – partì nel gennaio del 1920.
Tra i giornalisti al seguito spiccano i nomi di Luigi Barzini per il Corriere della Sera e Pietro Nenni per il Secolo. Mancava però, in quel periodo, la Lega delle cooperative, passata nel frattempo in mano ai massimalisti e quindi propensa solo ad accordi con il governo sovietico di Mosca.
L’iniziativa cadde, per le difficoltà politiche e militari, con l’avanzata delle truppe bolsceviche e l’orientamento di Nitti attento verso l’URSS.
Rimane l’evidenza dell’attenzione di Turati e la sua riconosciuta autorevolezza nei rapporti con i governi e con il mondo economico.
Un altro esempio di comportamento saggio e di grande sensibilità verso i temi della politica internazionale avvenne con la sua adesione alla linea del presidente americano Wodroow Wilson, propugnatore della Società delle Nazioni e sostenitore dell’autodeterminazione dei popoli. La sua presenza al ricevimento che Emilio Caldara organizzò a Milano a Palazzo Marino il 5 gennaio 1919 in onore di Wilson, fu il segno della sua scelta, condivisa da Anna Kuliscioff.
Turati, Treves, Buozzi, D’Aragona e altri riformisti, malgrado l’orientamento contrario alla partecipazione all’incontro deciso dal direttivo della sezione socialista milanese, non si tirarono indietro, e Caldara affermò nel saluto di parlare anche in nome delle idealità socialiste in particolare a favore della autodeterminazione dei popoli.
Per questa iniziativa il Sindaco di Milano venne deferito alla Direzione del PSI per i provvedimenti disciplinari, anche se un anno dopo i massimalisti non rifiutarono la sua guida nella lista socialista che, grazie a lui, rivinse le elezioni amministrative e consentì l’elezione di Filippetti.
Com’è noto nell’esilio parigino Turati si adoperò con Nenni per la riunificazione socialista.
In una lettera a Nenni, dando il via libera all’unificazione, con molta franchezza esprime la sua opinione:
“ Non fui mai, tu lo sai benissimo il feticista di qualsiasi unità…tre dissensi ci tennero divisi – 1) sulla partecipazione o l’appoggio a governi democratici – 2) la valutazione delle riforme, la conquista da farne anche prima del miracolo rivoluzionario, la penetrazione graduale in tutti gli istituti borghesi – 3) l’apprezzamento del fenomeno bolscevico e delle dittature…
…tre fatti dominano oggi la storia: il ricordo della guerra la quale può riprodursi più terribile; la tragedia del fascismo; il fenomeno oscuro del bolscevismo…”.
Fu a lungo dimenticato
Turati fu poco ricordato dopo la seconda guerra mondiale (eccezion fatta per Saragat, per il PSDI e per il gruppo della ‘Critica Sociale’ – la rivista creata con la Kuliscioff
nel 1891 – i cui redattori, Ugo Guido Mondolfo e Giuseppe Faravelli, insieme ad altri, tra cui Antonio Greppi, erano stati suoi giovani discepoli).
Il ‘riformismo’ infatti era bandito nei due maggiori partiti del movimento operaio, il PCI e il PSI, uniti tra loro dal patto di unità d’azione, sottoscritto prima della guerra e rimasto in essere sino al 1957. Se l’oblio non coincise con la ‘damnatio memoriae’, poco ci mancò.
Per la verità nell’ottobre 1948 la traslazione delle ceneri di Turati e di Treves, dal ‘Père Lachaise’ di Parigi al Cimitero Monumentale di Milano, avvenne in un mare di folla. Ma fu l’ultimo riconoscimento delle ‘masse’ ai grandi costruttori del socialismo italiano.
Craxi rilanciò il riformismo
Fu Craxi, con la sua volontà revisionistica e con la sua politica, a restituire al riformismo socialista la sua dignità, a ricordare che senza i riformisti il PSI non sarebbe cresciuto, non sarebbero nati sindacati e cooperative, non sarebbero stati conquistati diritti fondamentali per il mondo del lavoro e per il movimento operaio.
Va a merito di Craxi il salvataggio della Critica Sociale, dopo la scomparsa di Ugoberto Alfassio Grimaldi.
Craxi anche formalmente, al congresso del PSI di Palermo (1981) diede il nome di ‘riformista’ alla propria corrente, ricollegandosi idealmente al riformismo turatiano.
Naturalmente il riformismo liberalsocialista di Bettino Craxi aveva caratteristiche differenti rispetto a quello dei primi anni del novecento. Erano trascorsi 70 anni dal periodo più felice per il PSI di Turati. Erano cambiati i tempi e i problemi. Ma non cambiavano il metodo e la volontà di percorrere la strada delle innovazioni e del rinnovamento delle istituzioni e della società, a vantaggio di un mondo del lavoro diverso e molto più vasto e nell’interesse della maggioranza dei cittadini e della nazione italiana. Era la riaffermazione definitiva della democrazia e della libertà come scelte di fondo di una sinistra indipendente dall’URSS, legata agli interessi italiani ed europei, svincolata dal massimalismo e dall’estremismo, capace di governare il Paese e di difendere i lavoratori senza ‘spaventare’ i moderati.
Se si deve fare un paragone prendendo spunto dal discorso ‘Rifare l’Italia’, è giusto che venga fatto con Craxi, e in particolare con l’intervento in apertura della legislatura del 1979, quando propose di affrontare il tema delle riforme istituzionali, economiche, sociali per adeguare il Paese ad una realtà in evoluzione.
Il processo riformatore, secondo il segretario del PSI, non doveva fermarsi alle istituzioni – a proposito delle quali sollecitava il superamento della difficile governabilità e sottolineava il distacco dalla società – ma avrebbe dovuto estendersi all’economia.
“…Il nostro sistema di economia mista può sembrare a prima vista il prodotto di una intelligente ed armoniosa virtù mediana tra i mali del capitalismo selvaggio e i vizi del capitalismo burocratico. Diviene un sistema perverso quando rischia di assommare i mali dell’uno e i vizi dell’altro…”.
Carlo Tognoli
Fonti: ‘Il socialismo italiano, Rifare l’Italia’ – (M&B‘ Publishing, Milano 1995) .
– Intervento Angelo Ventura in ‘Anna Kuliscioff e l’età del riformismo’- (Atti del Convegno di Milano – dicembre 1976)
Oreste Lodigiani
Hai ricordato molto bene passaggi cruciali della nostra storia politica.
Ma ci sarà molta strada da fare anche oggi per introdurre un minimo di saggezza nelle scelte politiche. Io dispero.