È andata recentemente in onda su Netflix una serie televisiva inglese di grande successo interpretata da una straordinaria attrice emergente che, nonostante i suoi ventiquattro anni, ha già fornito prova di grande maturità artistica.
Si tratta di una fiction, non di una storia vera, anche se non pochi telespettatori avranno arguito un canovaccio liberamente ispirato alle vicende personali e agonistiche di Bobby Fischer, il giovanissimo campione mondiale statunitense che per primo riuscì a impensierire seriamente i portentosi scacchisti sovietici.
L’ambientazione in cui l’adolescente Elizabeth Harmon detta Beth cresce, sia personalmente che professionalmente, è ritagliata sullo spicchio di mondo degli Scacchi a livello professionistico che ha avuto la sua massima espansione proprio negli anni ‘60-‘70.
Partiamo dal titolo: la versione inglese è “Queen’s Gambit” che letteralmente si dovrebbe tradurre con “Il gambetto della Regina” ma, in italiano, è stato reso con “La Regina degli Scacchi”.
La Regina è in effetti il pezzo più potente sulla scacchiera, il più libero nelle sue mosse poiché, sebbene una partita a scacchi possa considerarsi vinta quando uno dei due contendenti riesce a catturare il Re avversario, è di fatto la Regina ad esser protagonista.
Ma non è sempre stato così, anzi: l’evoluzione delle regole di gioco è stata lenta e a tratti insolita, parallelamente ai mutamenti storici e in virtù delle temperie culturali attraversate.
Infatti, nel gioco prototipo degli Scacchi moderni, che in sanscrito si chiamava Chaturanga, il pezzo della Regina non aveva questo nome né tantomeno la libertà di scorrazzare a briglia sciolta su tutta la scacchiera.
Anzi, trattandosi di un gioco di strategia che simulava una guerra, tra cavalli, torri, alfieri e pedoni – cioè fanti – non era proprio prevista la presenza di donne in campo.
Il Re, che come nelle vere battaglie se ne doveva stare riparato ai lati del campo in cui si combatteva – per osservare da lontano le sorti del proprio esercito – era affiancato da un “mantri”, un consigliere che in alcune varianti del gioco era anche chiamato “firz” o “ferz”.
Il gioco originario si diffuse grazie agli intellettuali arabi che rimasero incantati dalla sua complessità e raffinatezza di ragionamento.
Furono proprio costoro, attorno all’anno Mille, a scrivere i primi veri e propri trattati sugli scacchi, mescolando gli aspetti ludici a quelli prettamente logici e matematici e precorrendo in questo senso gli eclettici intellettuali del Rinascimento.
Forse per sottolineare il legame tra Scacchi e numeri, anche nella serie da cui questo articolo prende le mosse, la madre della geniale protagonista ha ottenuto un PhD in Matematica presso la prestigiosa Cornell University.
Ma torniamo ai fatti storici: quando gli Scacchi sbarcarono in Europa, il pezzo a fianco del re, in virtù dell’assonanza tra i termini firz o ferz con il vocabolo francese “vierge”, divenne una “vergine”.
Si era attorno all’anno Mille in un ambiente fortemente permeato di cultura cristiana e dal culto per la Madonna, per cui il passo da Vergine a Regina fu rapido.
Questo pezzo poteva muoversi soltanto come un “alfiere storpio” e le sue manovre erano molto depotenziate, il che rendeva il gioco lento, tedioso, gravato di lungaggini strategiche poco amate dal pubblico.
La necessità di velocizzare le partite favorì sensibili cambiamenti nel regolamento poiché nelle corti europee si cominciarono a tenere tornei tra i nobili, quindi si cominciò a sentire la necessità di poter procedere con un ritmo spedito che rendesse il gioco avvincente.
Attorno al 1300, in sintonia con i cantori dell’Amor cortese, la figura femminile divenne centrale e di pari passo anche il pezzo della Regina cominciò lentamente a emanciparsi sulla scacchiera.
I tempi erano ormai maturi e, come ricorda la storica degli scacchi Mary Yalom, con la dispotica Isabella di Castiglia sul trono di Spagna, il pezzo della Regina non rimase a oziare tra caselle bianche e nere in un ruolo secondario, ma prese il sopravvento. Come era prevedibile, malignerà qualcuno.
Si inaugurò così una tipologia di gioco estremamente rapido e appassionante definita “alla rabbiosa”, in cui la Regina dominava da una parte all’altra della scacchiera creando grande scompiglio.
E che andasse a finire in questo modo, malignerà ancora una volta qualcuno, era prevedibile.
Ma chiudiamo il nostro excursus storico per introdurre considerazioni di carattere scientifico.
Sappiamo che gli Scacchi sono tra i giochi, o forse il gioco che più di tutti ha un legame strettissimo con la matematica e il ragionamento logico/deduttivo.
Meno evidente è il legame, particolarmente esaltato, tra questo gioco e l’espressione artistica intesa come creatività nel trovare nuove soluzioni.
Altri si sono chiesti perché non siano rari i casi di grandi scacchisti che sono stati anche atleti di discreto livello: probabilmente una partita complicata richiede una capacità di resistenza sia mentale che fisica.
Resta però, come dato di fatto, che matematica e Scacchi siano connessi al punto che il grande matematico inglese G. Hardy, nella sua opera “Apologia di un matematico” affermava che: “Un problema di Scacchi è matematica autentica”.
Per questa ragione non deve affatto meravigliare che molti scacchisti siano in realtà matematici di professione che hanno trovato, tra i quadrati bianchi e neri, un fertile terreno per far fiorire le loro ricerche, in special modo nel settore della logica e dell’informatica teorica.
Quali sono le ragioni che hanno portato la comunità scientifica a studiare teorie e addirittura a sviluppare tecnologie per costruire macchine capaci di giocare?
Tutte le indagini fatte in questa direzione mettono in rilievo come la capacità di praticare in maniera efficiente i giochi di strategia, sia stata per lungo tempo vista come qualità distintiva dell’intelligenza umana.
Gli Scacchi, che sono il gioco di strategia per eccellenza, implicano una capacità di ragionamento tanto profonda e sottile, che hanno sopportato senza esaurirsi qualche secolo di partite e di studi analitici intensivi, divenendo un’arena naturale per i tentativi di meccanizzazione.
Se fossimo in grado di sviluppare un giocatore artificiale “modello”, mediante il quale scoprire le procedure astratte alla base dei processi decisionali, si potrebbe tranquillamente affermare di aver penetrato il nucleo dell’attività intellettuale umana.
Questa situazione è argomento su cui sono stati girati già molti film, alcuni simpatici e adatti a tutta la famiglia, altri più inquietanti, con macchine capaci di sviluppare sentimenti umani e difetti umani come il desiderio di predominio.
Non è una novità nella storia dell’uomo: dal Golem in poi, si è spesso sentita la fascinazione di poter creare esseri artificiali o automi.
Questo è un capitolo fondamentale importante della storia della scienza moderna.
È nel ’700 che la tecnologia meccanica giunge ad un avanzato grado di maturazione, come si vede soprattutto negli automi costruiti dal francese Vaucanson, abilissimo costruttore di macchine capaci di imitare le principali funzioni animali o addirittura umane.
I musei specializzati conservano animali meccanici che cantano o mangiano, teste che parlano, strumenti musicali che suonano da soli.
Qualche decennio più tardi, il barone Von Kempelen, ingegnere e consigliere di Stato dell’impero Austro-Asburgico, promise all’imperatrice Maria Teresa che nel giro di un anno al massimo sarebbe stato in grado di mostrare un oggetto scientificamente spettacolare.
Quando venne il momento, il barone si presentò a corte con un mastodontico automa in grado di giocare a Scacchi che venne esibito in molte corti europee.
In realtà però, dopo varie supposizioni sul suo funzionamento, si scoprì che Von Kempelen era barone di nome e baro di fatto, poiché la macchina celava tra i suoi ingranaggi un buon giocatore dalla corporatura minuta.
Fu poi il matematico inglese Charles Babbage nel XIX secolo, che per primo studiò scientificamente il problema delle macchine capaci di giocare.
Egli inventò un vero e proprio calcolatore programmabile – la cosiddetta Macchina Analitica – un computer primigenio mai effettivamente costruito, a causa della primitiva tecnologia dell’epoca e del carattere inconcludente dell’inventore.
A Babbage va comunque il merito di aver compreso che una macchina del genere avrebbe potuto sfidare la capacità forse più squisitamente umana, l’intelligenza, e che la sfida avrebbe potuto avere luogo sul terreno dei giochi di strategia.
In un articolo scritto nel 1864 lo scienziato sosteneva che qualsiasi gioco ad informazione completa potesse essere affrontato con successo da un automa, per cui si sarebbe potuti giungere alla progettazione di macchine in grado di battere, nel gioco degli Scacchi, i migliori giocatori umani.
È interessante notare che lo psicologo francese Alfred Binet nella sua opera ‘’Psychologie des Grand Calculateurs et Joueurs d’Echecs’’ mise a confronto già nel 1894 le capacità psichiche dei giocatori di Scacchi con quelle di coloro che sono particolarmente abili nel calcolo mentale.
Proprio in quegli anni era stato costruito dall’ingegnere spagnolo L. Torres y Quevedo un autentico automa scacchistico capace di giocare con precisione un particolare tipo di posizione: il finale di Re e Torre soli contro Re solo.
Mezzo secolo dopo, con l’inizio della Seconda guerra mondiale, nuove energie vennero profuse soprattutto dagli inglesi, negli studi crittografici al fine di intercettare le comunicazioni nemiche. Fu così che a Bletchey Park venne costituito un gruppo dei loro migliori matematici, tra cui uno dei maggiori scienziati del Novecento: Alain Turing.
Curiosamente i matematici vennero affiancati dai migliori scacchisti inglesi dell’epoca, in particolare dai due campionissimi C. Alexander e H. Golombek.
Fu certamente in questa sede che Turing iniziò a sviluppare alcune sue idee poi rivelatesi di importanza fondamentale per lo sviluppo delle basi teoriche dell’Informatica.
Turing si interessò moltissimo al problema di definire una strategia di gioco matematicamente perfetta, ovvero di un insieme di regole capaci di guidare le mosse di un calcolatore.
L’analogia con i processi mentali matematici è abbastanza chiara: la macchina scacchista seleziona la migliore tra tante mosse; la macchina matematica ha un teorema da dimostrare e seleziona tra tutti i postulati assunti o tra i teoremi già dimostrati, quello più adatto per proseguire nella dimostrazione.
Il matematico John von Neumann notò per primo che il problema della partita perfetta non è molto interessante sotto il profilo matematico e inaugurò una nuova disciplina, la Teoria dei Giochi, a sua volta parte di una teoria che permette di analizzare un gran numero di situazioni conflittuali, come per esempio l’economia di mercato o la guerra.
Va precisato che per von Neumann si potrebbe in linea di principio mettere a punto una partita perfetta, ma essa avrebbe un costo improponibile in quanto implicherebbe lo sviluppo di un albero di gioco smisurato, nella pratica non realizzabile neppure avendo a disposizione i computer più potenti.
Con l’invenzione del calcolatore elettronico programmabile, i tentativi di costruire giocatori artificiali ricevettero nuova linfa.
Nel 1950 l’americano Claude Shannon, ricercatore presso i laboratori Bell, scrisse un articolo in cui analizzava il problema della programmazione di un calcolatore elettronico allo scopo di costruire un giocatore artificiale di Scacchi.
Dunque, all’inizio degli anni ’50 il mondo scientifico era ormai maturo per lanciare la grande sfida di realizzare un automa capace di dominare il ‘’gioco dei Re’’: adesso la parola passava ai laboratori di ricerca.
Presso la Carnegie Mellon University nel 1955 Herbert Simon e Allen Newell iniziarono la progettazione di una macchina “intelligente”, capace di dimostrare teoremi matematici o di progettare sistemi complessi.
Nel 1978 il maestro scacchista Levy affermò: “Entro dieci anni la vera notizia sarà che un umano normale ha battuto a Scacchi un computer” e questa predizione fu giusta, sebbene si sarebbe realizzata con qualche decennio di ritardo.
La ricerca sul gioco artificiale è ritenuta tuttora da alcuni studiosi di grande importanza per lo sviluppo della teoria e della tecnologia delle intelligenze artificiali.
Non sappiamo se verrà girata una seconda serie “La Regina degli Scacchi” ma, se ciò avvenisse, il prossimo acerrimo nemico di Beth Harmon potrebbe essere un robot.
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