Noi, italiani, seguiamo il dibattito sulla Brexit come fosse una partita di calcio fra Inghilterra e Belgio in un Campionato del Mondo dai quali siamo già fuoriusciti. Chi fa il tifo per l’una o l’altra squadra ma sempre con una netta prevalenza per i disinteressati di fronte a squadre che ci stanno, ambedue, amabilmente antipatiche e in un Campionato nel quale non abbiamo oramai molto da dire.
Il nostro disinteresse per la vicenda dice molto sulla crisi dell’Europa, che è crisi di governance e di idee forza, e anche, purtroppo, della crisi del nostro paese che non sa più guardare oltre ai propri confini. Convinto in questo modo di difendere meglio e di più gli interessi del popolo. E, come sempre è accaduto, capirà nel lungo periodo la fallacia di questo approccio del tutto provincialistico e di bassa strategia.
Ma torniamo alla Brexit. Di ritorno da una settimana a Londra, sempre piacevole in una città che mantiene il suo fascino in quel suo essere così “inglese” e così “mondiale” nello stesso tempo, mi è venuto da riflettere non tanto su come gli inglesi si stanno incartando in questa discussione ma piuttosto come la stanno vedendo gli italiani. Non tanto quelli che se ne stanno nelle loro città italiane e neppure i turisti che invadono i mercatini di Cadmen o di Portobello alla ricerca, oramai effimera di qualche prodotto effettivamente inglese, ma quei tanti italiani che per lavoro o studio si sono da tempo trasferiti in Inghilterra e che rappresentano oggi una comunità numerosa e articolata. Si va dal giovane di buona famiglia, tutto spesato, che si è iscritto ad una Università inglese al giovane che fa un’esperienza di lavoro e magari di studio avviando un percorso di vita da cittadino inglese. Dall’adulto che vive in Inghilterra con una professione internazionale al vero e proprio immigrato che ha trovato là, magari nei mille meandri dell’economia delle città inglesi, la fortuna che non trovava nel proprio paese di origine.
Parlando qua e là con un po’ di connazionali la prima cosa che emerge è la scarsa sensazione di preoccupazione che la Brexit fa crescere nei nostri connazionali dal punto di vista della vita pratica. Certo nelle highlands si è votato a favore della Brexit per dire no all’ingresso degli stranieri nel paese. Una spinta che ancora oggi fa aumentare i consensi per Farage. Ma in una città come Londra, dove peraltro la Brexit ha perso, difficilmente si riesce a capire cosa potrebbe essere un “giro di vite” all’immigrazione e all’integrazione di tanti popoli del mondo. Londra è una città internazionale e l’impressione di tutti è che, Brexit o non Brexit, la vita, l’economia e la cultura di questa città difficilmente cambierà. Ci vorrà qualche foglio in più? Poco male. Peraltro la burocrazia inglese è abbastanza efficiente e non sarà un problema. Diverso è il discorso se dalla vita pratica si passa allo sviluppo del paese e al sogno europeo. Due temi fra di loro connessi ma in parte separabili. Sullo sviluppo del paese le ombre emergono. L’Inghilterra è forte. Ha una economia e una società flessibile e strutturata nello stesso tempo. Ma il suo ruolo finanziario e direzionale a livello europeo, oltre che mondiale, era una parte importante della sua forza. In che modo l’uscita provocherà un contraccolpo non è dato di sapere. Ma le preoccupazioni aumentano, specialmente fra i tanti professionals della city. Sul sogno europeo c’è il massimo di criticità. Non si capisce bene come stiano reagendo davvero, nel profondo, gli inglesi, che da sempre stanno in Europa con un piede di fuori. Ma anche con un piede dentro. Certo gli italiani che là vivono e lavorano sentono l’amarezza della scelta. Sentirsi a casa in Inghilterra, nonostante la guida a sinistra e il cibo non sempre all’altezza, stava diventando un “sentiment” diffuso specialmente fra i giovani. Il fatto di considerare Barcellona, Londra, Parigi o Berlino una “propria città”, in cui poter vivere la “propria vita” per un periodo o anche per sempre e in cui stabilire un “proprio percorso professionale” sta entrando nel dna dei giovani italiani. E li sta facendo diventare qualcosa di altro da quello che sono stati i cittadini delle nazioni del ‘900. Questo processo potrà continuare nel resto dell’Europa anche dopo la Brexit ma il “colpo” sarà innegabilmente duro. Mi raccontano di giovani italiani che hanno pianto dopo il risultato del Referendum. Non certo perché cambiasse qualcosa di pratico nella loro vita. Ma perché si sentivano più “stranieri” dopo quel voto.
E’ chiaro che se la Brexit verrà discussa fra i burocrati europei tutta in capo a norme e codicilli per mantenere un mercato libero e aperto, senza alcuna considerazione del sogno europeo di tanti giovani che ci avevano creduto e che ci credono ancora oggi, non tanto e non solo col pensiero quanto con le azioni e i comportamenti pratici, di vita quotidiana, il danno sarà e resterà enorme.
Non può finire così. Il fallimento dell’Europa verrà acuito dalla realizzazione della Brexit. Solo un Dio ci può salvare, diceva il filosofo alla conclusione dei suoi tanti anni di pensiero. Parafrasando quella frase direi che solo un nuovo gruppo dirigente ci può salvare. Che sappia contrapporre qualcosa di diverso dal grigiore degli Junker e dalla bassezza dei Farage per recuperare quel sogno che non sembra morto ma soltanto annichilito da anni di cattiva politica europea.
Gli italiani in Inghilterra questo lo hanno capito. E gli italiani in Italia? Staremo a vedere.
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