Era il 1986 ed Einaudi pubblicava, nella sua Storia d’Italia nella serie dedicata alle regioni, il volume “la Toscana” a cura di Giorgio Mori: tra i preziosi contributi che lo componevano c’era quello che un brillante e giovane – brillante lo è ancora, giovane non più – Franco Camarlinghi dedicava a Firenze , ai rischi che correva di diventare una “one company town”, cioè una città che dipende – o meglio, che è convinta di dipendere – solo dal turismo di massa.
Il saggio è stato recentemente ripubblicato in un volume che contiene contributi di altri autori che si pongono il compito di attualizzare le parole di allora nel libro “Lo shock di Firenze”. La vera pandemia di una città e 4 “vaccini” + 1 per affrontarla”, edito da Nuova Editoriale Florence Press.
Un testo di grande rilievo con contributi di Marcello Mancini, cronista politico e ex direttore del quotidiano La Nazione, Stefano Fabbri, già alla guida dell’agenzia ANSA in Toscana; Massimo Tommaso Mazza, già imprenditore del commercio più “avanzato; Leonardo Tozzi, editore e direttore del mensile cult Firenze Spettacolo
Con la pandemia è arrivata la fine di una lunga stagione in cui la rendita di posizione pareva una certezza immutabile, su un proscenio in cui si muovevano una politica senza ricambio, le imprese che stanno al gioco o costrette a starvi, le storiche famiglie spesso grandi solo di nome, gli investitori stranieri che non amano il rischio sembravano i soli attori e registi. La pandemia ha interrotto la rappresentazione e ogni tentativo di replica sarebbe solo una farsa.
Con il permesso dell’autore, pubblichiamo “Quel che resta di Firenze” Franco Camarlinghi riflette sulle trasformazioni della città (testo apparso su Il Corriere Fiorentino) (Luciano Pallini).
“Giuliano Procacci, uno degli storici più importanti dell’Italia del secondo novecento, insegnava a Firenze negli anni ’70 del secolo scorso.
Eravamo diventati amici, ben oltre la comune appartenenza politica: imparavo molto da una frequentazione che diventò rapidamente quasi quotidiana e nella quale Giuliano smetteva completamente i panni del Professore e dell’Accademico.
Amava molto Firenze, ma ne avvertiva una certa dimensione provinciale e, dopo qualche anno, sarebbe tornato a insegnare a Roma, dove peraltro aveva sempre avuto casa.
Una dimensione provinciale e soprattutto retorica che, forte della grandezza del passato, finiva quasi sempre per confondere la grande epoca che fu con un presente incomparabilmente più modesto.
Spesso mi prendeva in giro, per la mia faccia che secondo lui era molto “fiorentina” (non nel senso della bistecca, suppongo) e mi consigliava di andarmene dalla mia città per un certo tempo, in modo da liberarmi da quel velo di retorica che, a dire la verità, anche la mia generazione sentiva come un peso sempre presente.
“Devi cambiare aria, altrimenti ti ritroverai da vecchio a sedere su una panchina fra un monumento e l’altro della grandezza passata, a guardare i tuoi simili, fiorentini, come te convinti di essere al centro del mondo, invece che all’angolo di Via dei Benci con Corso dei Tintori.
Mi scuseranno i lettori se l’ho fatta lunga su questo ricordo, ma mi è venuto in mente appena ho pensato di scrivere su quello che è cambiato da1986 a oggi.
Lì per lì mi sarebbe venuto di dire quasi niente, poi le parole riaffiorate di Giuliano mi hanno fatto mutare idea.
Una cosa è cambiata: io potrei trovare una panchina dove sedermi e fare il fiorentino agé che guarda chi gli passa davanti, ma di indigeni ne vedrei pochi o punti, a seconda delle stagioni, e i viandanti forestieri non avrebbero nessuna idea di essere al centro del mondo, invece che in una delle tante mete turistiche, anche se fra le più ambite.
Ecco cosa è cambiato davvero a Firenze, o meglio nella sua parte storica; quello che per tanti secoli era stato un pieno, in pochi decenni è diventato un vuoto.
Vi ricordate le pagine del Quartiere di Pratolini, quando dopo i pretesi risanamenti del fascismo, cioè le distruzioni di quel tessuto antico che andava dall’attuale Piazza dei Ciompi a Piazza Salvemini, agli abitanti delle vecchie case viene offerto di trasferirsi altrove e tutti rifiutano e si stringono nelle abitazioni dei parenti, pur di non lasciare la loro parte di città?
Si trattava di zone povere di tutto, ma non di una cosa: un’identità che, malgrado tutte le miserie e le difficoltà, restava una forte ragione di vita.
È stato così per molto tempo ancora.
Dopo l’alluvione la residenza popolare in parte resisté nel centro storico, anche se i piani bassi videro l’abbandono da parte delle attività di lavoro che fino ad allora avevano mantenuto una relazione stretta fra casa e lavoro stesso: il senso vero della città, anche nella mutazione delle forme e delle tecnologie.
Poi l’onda del turismo ha travolto ogni possibilità di resistenza come quella che abbiamo ricordato.
Questo è cambiato: chi ha lasciato il centro per motivi economici o di altro tipo di difficoltà, non ha nostalgia di non vivere più in un ambiente sociale che non ha ormai alcuna identità se non quella dello sfruttamento turistico di un grande e lontano passato.
Una realtà che non mantiene neppure quel modo di essere provinciale su cui ridevamo tanti anni fa con Giuliano Procacci.
La nostalgia di chi se ne va dal centro è solo quella delle antiche mura e dei monumenti, fra i quali ha vissuto e che non sono mai stati per lui una cartolina, ma un modo di dire al mondo: guardate che fortuna ho avuto!
Poi la città non è più stata sua e tutto è diventato diverso, ecco cosa è cambiato da quel lontano 1986.
Possente è stata l’iniziativa dei poteri pubblici per consentire questo mutamento.
Basta pensare al Palazzo di Giustizia in Piazza San Firenze.
Il Palazzo è sempre lì, c’è anche un museo, ma non c’è più la vita.
Lasciamo stare tutta la vicenda dell’Università: su questi due esempi e su tutti gli altri simili conviene leggere i contributi appassionati e competenti di Stefano Fabbri, di Marcello Mancini, di Massimo Tommaso Mazza e di Leonardo Tozzi (Lo Shock di Firenze La Vera Pandemia di una Città).
Ci sono altri cambiamenti rispetto alla metà degli anni ’80 del secolo passato che dovrebbero far riflettere sul futuro di Firenze chi ancora intenda farlo.
Uno è la scomparsa del ruolo determinante degli intellettuali nel discorso pubblico, mentre prima Firenze era una sede privilegiata di tale ruolo, dentro e fuori dell’Università.
Si potrebbe dire che la mia è un’affermazione superflua, perché il discorso pubblico in realtà non c’è più, o invece che di un fiume ha preso le dimensioni del Mugnone durante il periodo estivo.
In realtà la crescente debolezza dei partiti e delle stesse parti sociali lascia spazio solo al protagonismo di sedicenti leader che alla fine non rispondono che a sé stessi.
Tutto ciò determina l’infuriare delle affermazioni apodittiche o consolatorie, la fiducia nelle magnifiche sorti e progressive che ci aspettano dopo la pandemia, il Rinascimento: siamo o no a Firenze?
Ma quale Firenze?
Ecco l’ultimo vero cambiamento di cui quasi nessuno vuole prendere atto.
Firenze non solo non è mai finita nel tempo contemporaneo al limite delle mura antiche e demolite, anzi nel tempo attuale le attività che determinano le possibilità di ripresa e di sviluppo economico, e quindi anche culturale e sociale, sono sempre più altrove rispetto al centro.
La vasta periferia industriale, Sesto, Campi, Calenzano, tanto per dire, insieme a Piazza della Signoria, a Piazza Santa Croce, a Piazza Santo Spirito sono Firenze e finché non si capirà questo non ci sarà cultura politica all’altezza dei problemi che l’attualità pone.
In quel lontano 1986 non era difficile intendere che ci si stava avviando verso una china che avrebbe finito per consumare il centro di Firenze e trasformarlo come è successo,
Ma era facile far finta di non capire e così prepararsi a sfruttare fino alla fine la rendita assicurata da quella che Giacomo Becattini definiva, con indimenticabile ironica competenza economica, la principale Company fiorentina, quella degli incolpevoli Botticelli e Michelangelo.
Chissà che la pandemia non porti a veri cambiamenti: il sottoscritto intanto va a prendere posto sulla panchina, ammesso che non sia stata già prenotata da un tavolino del ristorante di fronte.
Armida Nardi
Cari signori. Ma voi dove eravate quando la città cominciava ad essere svenduta ? Voi che avete fatto politica e ci avete presentato i vari Sindaco ed amministratori che avrebbero fatto rifiorire Firenze ? Io sono nata in s.Ambrogio ed ho vissuto tutto il tracollo della città. Artigiana. Figlia di artigiani. Poi commerciante..una vita di gran lavoro mai aiutata da nessuno..non ne ho avuto bisogno..sono stata brava e me lo riconosco ed ora a 82 anni non sto sulla panchina a biascicare denuncia..ma faccio la guardia turistica e tocco con mano il degrado. Non siamo i migliori del mondo come credevamo..ma neppure al posto da essere comandati dai nuovi padroni russi arabi cinesi ecc. Scrivo alle istituzioni. Non abbiamo più bussini per il centro storico s.m.nuova non fa più le analisi…nessuno mi risponde..nessuno mi contatta per una manifestazione seria ..ma cosa aspettate tuti voi ? Fiorentini ai quali è stato impedito l accesso a A.vCroce per la commemorazione di Dante. Impedito l Accesso alla partita del calcio Storico..partita farsa ma alla quale insoliti noti erano sul palchetto ..vergognatevi tutti…voi c eravate. Ed anche io. .Armida Nardi. Non me ne importa dell’ anonimato. Mettete pure la mia mail. E se ci sarà qualcosa da fare io sono pronta