Il modo in cui, con riferimento al distretto lapideo della Apuane, si parla e più spesso si bisticcia sull’impatto delle cave di marmo inizia finalmente a colorarsi di nuove sfumature. Si moltiplicano, infatti, i segnali di una maggiore consapevolezza in fatto di sostenibilità, perlomeno relativamente al pilastro ambientale. Recentemente un folto gruppo di imprese del settore ha sottoscritto il “Manifesto (carta di impegni) di Sostenibilità della Pietra Naturale Autentica”. Sta crescendo, inoltre, il numero delle imprese lapidee che hanno adottato schemi EMAS o ISO 14001 per gestire gli impatti che queste hanno o potrebbero avere sull’ambiente. Sono state realizzate, infine, le prime certificazioni LCA /life cycle assesment. Si tratta di documenti che introducono nel dibattito una serie di dati puntuali: produzione di CO2, consumi di fossili, di suolo e di acqua, emissioni, ecc. Purtroppo questi sono redatti con linguaggi da addetti ai lavori che poco aiutano i diversi stakeholder a fugare i dubbi sulle patenti di sostenibilità, produzione circolare e etichette green. Proviamo a fare un po’ di chiarezza partendo dalle parole spesso usate impropriamente.
La sfida della sostenibilità si gioca sul rapporto tra risorse naturali e consumi; un sistema sostenibile è quello che consente ad ogni generazione futura di stare bene quanto quella che l’ha preceduta. Nel caso delle Apuane non sembrano esserci, su orizzonti temporali ragionevolmente lunghi, apparenti problemi di esaurimento dei giacimenti marmiferi. Resta il nodo dell’allocazione intergenerazionale di risorse non rinnovabili: “qual è, con riferimento alle prossime generazioni, il volume massimo di marmo che si può estrarre senza pregiudicarne il benessere?” Nel lungo periodo, questo vale per tutte le risorse non rinnovabili, il dovere che impone la sostenibilità è di lasciare in eredità non un dato stock di una specifica risorsa quanto di dotare le prossime generazioni di tutto ciò che è necessario per acquisire std di vita buoni almeno quanto quello attuale. In linea di principio, sempre che si possa quantificare il valore delle modifiche del paesaggio, il degrado del patrimonio di risorse e beni ambientali riconducibile alle attività estrattive dovrebbe trovare compensazioni in altri beni dello stesso valore per la collettività in modo da lasciare inalterato il patrimonio collettivo, criterio implicitamente presente nell’art 21 del regolamento del Comune di Carrara sulle concessioni. Ci sono tuttaviavarie ragioni per ritenere che il problema sia di difficile soluzione perché alcune caratteristiche ambientali si possono ritenere insostituibili (in pratica, non è irragionevole ritenere che non abbiano prezzo).
Questa specificità del settore marmo, con i suoi inevitabili conflitti, solleva almeno un paio di quesiti. Stante l’intrinseca impossibilità di una completa compensazione ambientale-paesaggistica, la sollecitazione a ridurre le quantità estratte trova risposte (almeno parziali) nel quadro normativo regionale che ne stabilisce i limiti. Teniamo sempre presente che, portata ai suoi estremi, un’attività votata alla sostenibilità dovrebbe puntare a ridurre quanto più possibile il consumo di materiali vergini. Gli eventuali claim ambientali in questa direzione, però, spettano non alle autodichiarazioni delle cave ma agli utilizzatori del marmo, ovvero costruttori, designer e architetti che nelle loro scelte sono chiamati a ponderare, grazie anche a documenti come le analisi LCA, le caratteristiche dei diversi prodotti concorrenti in termini di CO2, durata, eventuali sostanze pericolose, ecc…
Un altro ordine di considerazioni verte attorno al fatto che nel linguaggio corrente i confini tra “sostenibilità” e “circolarità” spesso sono sfumati. Tornando al marmo si presume che al termine del loro (lungo) ciclo di vita rivestimenti, lastre e top per cucine trovino di nuovo impiego come materie prime seconde nel settore edile, questo almeno nei Paesi occidentali. Sul fatto che questo particolare “rating di circolarità” dei prodotti di marmo (come per quelli in ceramica e laterizi) sia elevato non dovrebbero esserci dubbi. Nel caso specifico delle cave apuane, tuttavia, questi persistono relativamente a parte dei prodotti derivati dell’attività estrattiva: per ogni tonnellata di “pietra da taglio”, infatti, si producono più di tre tonnellate di scarti tra informi, sassi, terre e polvere di marmo (“marmettola”). Il rapporto è 1,5 a 5,0 milioni di tonnellate, che non sono poche. In realtà la maggior parte di questi prodotti, e in particolare i “sassi bianchi”, da oltre 50 anni vengono macinati per ricavarne carbonato di calcio che trova impiego in numerose applicazioni: carta patinata, vernici, materie plastiche e adesivi. In linea di massima, salvo poche eccezioni, non sono impieghi di particolare valore ma rispondono egregiamente all’impegno per il riutilizzo dei sottoprodotti che non vanno in discariche.
Più difficolta si riscontrano nel riutilizzo delle terre di copertura e dei sassi scuri. Negli ultimi mesi, inoltre, è diventato di stringente attualità il reimpiego delle marmettole dei laboratori (oltre 200.000 ton) che, venuti meno i consueti sbocchi (neutralizzazione di fanghi, abbattimento CO2 centrali a carbone…), stante le difficoltà a conferirle in discariche potrebbero ingolfare i piazzali delle imprese fino a impedirne la normale attività. Il vulnus più serio in fatto di circolarità del settore, come sottolinea Arpat, tuttavia è un altro: “le dichiarazioni MUD del comprensorio Apuo-Versiliese rendono presumibile che ingenti quantitativi di marmettola siano abbandonati nell’area di cava restando esposti all’azione degli agenti atmosferici con notevole impatto sull’ambiente, in particolare sulla risorsa idrica che periodicamente evidenzia fenomeni di intorbidimento con tutto quanto ne segue”. Va dato atto che su questo fronte, oltre alla diffusione di comportamenti più virtuosi in fatto di captazione delle polveri nei piazzali di cava, si sono intensificati gli investimenti, i progetti di start up e le collaborazioni con le università per trovare urgentemente soluzioni circolari. Negli ultimi anni, ancora, nel distretto apuano sono state messe a punto soluzioni consortili per la gestione e la valorizzazione dei sottoprodotti delle cave analoghe a quelle adottate con brillanti risultati in altri settori (Revet, Corepla, Comieco…). In prospettiva, per chiudere il cerchio della circolarità si dovrà ampliare il ventaglio delle opzioni di politica ricorrendo a corsie preferenziali nel Green Public Procurement o applicando schemi EPR (Extended Product Responsibility) per rendere più competitive le materie prime seconde della lavorazione del marmo. Il nuovo corso potrebbe iniziare con un contributo obbligatorio a carico delle attività estrattive per sostenere prodotti come i mattoni ottenuti comprimendo la marmettola (“Ri-block”).
Nonostante i bilanci di sostenibilità, peraltro fin qui discontinui, e le analisi LCA, per il momento sporadiche ma presto di moda, e fermo restando che il marmo è indubbiamente un prodotto naturale, i semplici data set con le emissioni di CO2 non sono sufficienti per etichettarlo “green” e, soprattutto, non hanno la robustezza necessaria per affermare che un settore ambientalmente complesso come quello della escavazione e della lavorazione del marmo sia meno impattante rispetto a ceramica, laterizi o legno. Ci sono studi pubblicati su riviste scientifiche che dimostrano la minore emissione di CO2 del marmo rispetto alla ceramica ma vi sono altrettanti studi scientifici che approdano a risultati esattamente opposti. Peraltro, per sostituire con lastre di marmo anche solo pochi punti percentuali delle quote di mercato delle ceramiche di cui nella sola Italia se ne consumano più di 100 milioni di mq l’anno, sarebbe necessario un incremento esponenziale delle escavazioni nelle Apuane, cosa che ovviamente nessuno vuole: è bene che il marmo resti prodotto di nicchia!
Per tutto questo, l’uso delle certificazioni EMAS, dei report di sostenibilità e delle analisi LCA, più che per ridondanti green claim ambientali, dovrebbe puntare a evidenziare agli stakeholder del distretto lapideo i progressi messi in atto nel tempo in termini di minore impatto generale, di valorizzazione dei prodotti derivati, di migliori ricadute sociali e di più armoniche relazioni con le comunità locali.
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