Nulla sarà più come prima. Non è molto di più di uno slogan. Cose che si dicono tutte le volte che uno “shock esogeno” cambia, per un tempo che può essere più o meno lungo, le “abitudini normali” di una comunità. Sono abbastanza attempato per ricordarmi lo “shock petrolifero” che colpì il Mondo nel 1974. Si era oramai alla vigilia della fine dell’era del petrolio, le domeniche si bloccavano le automobili e i cittadini a piedi si riprendevano le città. Erano belle quelle domeniche senza auto. Ma molto scomode. Ed in effetti di lì a poco lo shock fu superato, il petrolio ritornò a fare il “suo lavoro” e della esperienza delle città a piedi rimasero soltanto le sperimentazioni in molte città delle “zone a traffico limitato” che hanno convissuto fino ad oggi con la civiltà dell’automobile.
Lo stesso accadrà, penso, con la crisi da coronavirus. Non appena sarà possibile riprenderemo le nostre abitudini, il turismo di massa si riprenderà i centri storici e culturali delle città del Mondo e la globalizzazione delle relazioni riprenderà il proprio corso. Anche in questo caso qualche lascito potrà sopravvivere dall’esperienza vissuta. E fra i tanti che si possono prevedere ne sottolineo due.
Uno di natura economica, che in questa riflessione, tralascerò. E riguarda la riconsiderazione delle filiere produttive internazionali. La “produzione gettata nel Mondo” che prescinde dai confini degli Stati o delle confederazioni e dalle considerazioni geopolitiche internazionali forse non è il meglio, in termini di sicurezza, che possiamo avere. Certo le imprese cercano conoscenze, capacità e costi che siano i più competitivi nella pluralità globale dei luoghi ma le comunità ricevono redditi, diritti e protezione da istituzioni che hanno determinati confini geografici. E questo rapporto fra sistema produttivo e sistema istituzionale dovrà certamente essere tenuto in considerazione. E non è soltanto un problema di approvvigionamento di dispositivi sanitari ma è certamente un problema più ampio e che riguarda una pluralità di settori e di sistemi di produzione.
Il secondo tema è quello relativo alla salute dei cittadini e al sistema sanitario di ogni paese. L’Italia si è presentata all’appuntamento con l’epidemia in una situazione di relativa debolezza. I dati Ocse sono a tal riguardo eloquenti. Nel 2019 per ogni italiano c’era una spesa di 3400 dollari contro i quasi 4000 della media Ocse. Molto lontano dai 10500 dollari degli Stati Uniti ma anche dai quasi 6000 della Germania e 5000 della Francia. La spesa privata vede l’Italia in una posizione relativamente più elevata con 790 dollari contro i 730 della Germania e i 463 della Francia.
Ma non è solo un problema di spesa. L’epidemia, che ha colpito tra l’altro alcune delle regioni che, secondo alcuni indicatori strutturali e di gestione rappresentavano il “meglio” fra le Regioni italiane, ha messo in evidenza anche problemi di organizzazione generale e di organizzazione specifica nei singoli territori.
In primo luogo è emersa una difficoltà istituzionale nel rapporto fra centro statale e periferia regionale nel mantenere una linea unitaria di azione e nel definire le relative competenze e responsabilità. Con un accavallarsi di decisioni non sempre coerenti e con rimpalli di responsabilità e di comunicazione talvolta imbarazzanti di fronte allo sconcerto generale delle comunità che attendevano risposte certe e tempestive.
In secondo luogo sono emerse difficoltà a gestire l’emergenza sia per una incapacità anticipatoria del livello nazionale ad affrontare eventi che già avevano luogo in Cina e che avrebbero dovuto mettere in preallarme il sistema nazionale sia per problemi strutturali legati, in maniera diversa nelle singole realtà regionali, al rapporto fra sistema territoriale e sistema ospedaliero e alla gestione del sistema ospedaliero stesso.
Queste inefficienze sono state in parte ammortizzate dalla abnegazione e dall’impegno del personale sanitario a tutti i livelli che, come accade spesso in Italia per il “mondo dei soccorritori”, ha dato il meglio di sé ed ha risposto in maniera esaltante alla fase di emergenza ma questo non ha potuto cancellare le debolezze intrinseche del sistema.
E quindi possiamo dire che nel sistema sanitario qualcosa dovrà cambiare. Noi pensiamo a tre direttrici di intervento. Più una raccomandazione.
La prima direttrice è la messa a punto del rapporto fra centro statale e periferia regionale. La legge istitutiva parla in Italia di Sistema sanitario nazionale. Quindi lo stato non è un invitato nella discussione sulla revisione del sistema. Evitiamo fughe in avanti per la ricentralizzazione del servizio. Come se, in questa esperienza, ci fosse stato un centro efficiente e una periferia incapace. E puntiamo invece ad uno Stato che indirizza, coordina e controlla davvero, anche commissariando d’imperio le Regioni che non funzionano o che non sanno gestire i conti, ed a Regioni che gestiscono autonomamente ma rispondendo, in termini di performance, ai livelli previsti dagli indirizzi nazionali. Insomma autonomia sì, anarchia e irresponsabilità no.
La seconda direttrice è relativa al rapporto fra sistema ospedaliero e sistema territoriale nel quale vanno compresi i medici di famiglia. Il modello attuale è vecchio, sfilacciato e non funziona. La spinta dei cittadini verso gli ospedali e i pronti soccorsi sono un evidente segnale della mancanza di un “filtro funzionante” sul territorio. Occorre rivedere tutto evitando di spendere risorse ingenti per una attività che, come quella dei medici di famiglia, se lasciata a sé stessa produce al massimo un inconcludente ricettificio. E nulla di più.
La terza, e non per caso viene messa dopo due direttrici “riorganizzative”, è quella relativa alle risorse finanziarie. I soldi contano. Possono risultare sprecati, se non vanno di pari passo con una riforma complessiva del sistema produttivo sanitario, ma sono necessari. E’ evidente che per avvicinarsi ai livelli di spesa dei nostri partner europei più “avanzati” come Francia e Germania occorrerebbero risorse annuali fuori della nostra portata attuale. Ma è certo che, dopo questa esperienza, non potranno essere sufficienti i circa 160 miliardi di risorse e che dovremo arrivare almeno a 180 miliardi , con un incremento di peso strutturale sul Pil intorno al 10%, e forse anche di più. E’ evidente che un incremento strutturale di spesa sul Pil se è abbordabile in questa fase di emergenza, col supporto delle risorse a “basso costo” messe in campo dall’Europa con lo strumento del Mes, risulterà di difficile tenuta nel caso in cui il paese non ricomincerà a crescere e a svilupparsi secondo traiettorie più vicine ai paesi europei più avanzati. Perchè non sarà possibile avere una “sanità avanzata” se non ci sarà una “economia avanzata” a supporto.
Ed infine la raccomandazione. Che vale per la sanità, ma anche per altri settori della vita economica e sociale del paese.
L’emergenza chiama in campo, in maniera rinnovatamente forte, lo Stato. Ci sono sofferenze, mancanze e difficoltà nel sistema economico e sociale che richiedono l’intervento pubblico a supporto ma anche in sostituzione del mondo privato e della sussidiarietà sociale.
Nella sanità è evidente la necessità di un più elevato impegno pubblico. Ma non vorremmo che, per i soliti “statalisti indefessi”che sono abituati a lanciare slogan, questa fosse l’occasione per ridare al pubblico un impegno esclusivo a svantaggio della presenza privata. Se è vero che il mondo privato qualche volta “fallisce” è purtuttavia altrettanto vero che esiste anche il “fallimento pubblico”. Così come intrallazzi, ruberie e affari, specie in Italia, non hanno visto grandi differenze fra mondo pubblico e mondo privato. Certo talvolta il rapporto fra i due mondi è apparso gestito in maniera grigia. Il pubblico è risultato talvolta fagocitato da lobby private. Anche perchè ha lasciato deperire le strutture tecniche pubbliche adibite al controllo. Ma guai a pensare che la statalizzazione sia la via migliore, dal punto di vista produttivo e anche morale, per rimettere in piedi la sanità e l’intero paese. C’è un privato innovativo ed efficiente, che sa e può investire e gestire in complementarietà, secondo un forte indirizzo pubblico, ma anche in autonomia. Come c’è un mondo associativo della sussidiarietà che appare insostituibile. L’Italia del dopocovid dovrà puntare anche su queste risorse se vuole andare avanti e non rimanere soffocata da modelli di gestione dell’economia e della società che la Storia ha decretato come fallimentari.
Paolo
C’è un legame tra spesa sanitaria e vita media? Se è così, come immagino, perché paesi europei e mondiali che spendono molto di più hanno.una via media inferiore a quella del nostro Paese?
mauro grassi
certo che c’è un legame fra spesa sanitaria e salute e quindi vita media. Ma il legame è multifattoriale, cioè ci sono altri fattori che incidono sulla salute e quindi sulla vita media. Per cui non è un legame strettamente univoco…..
Massimo Papini
Alla luce di mie passate esperienze istituzionali e politiche penso che le riflessioni di Mauro siano sacrosante.Occorrerà fare un grande sforzo per saldare le scelte e le politiche ambientaliste alla battaglia del servizio sanitario per la tutela e la promozione della salute.Nel passato fu determinante la spinta dei sindacati per la realizzazione del servizio sanitario nazionale ora tutto tace…..