Tempi duri per i riformisti nel PD. Quando ho ascoltato lo “sfogo” di Matteo Richetti sulle liste di Martina per le primarie del PD mi sono sentito in pieno accordo. Anche io il giorno prima avevo manifestato, in privato, la stessa identica sensazione di disagio.
Nel panorama politico interno al PD avevo scelto Martina, quando ancora era in vita la candidatura di Minniti, perché si teneva lontano da due rischi. Il primo, quello rappresentato da Zingaretti, di un “ritorno a casa”. Cioè di una chiusura, pur legittima e proposta in maniera dignitosa, di una stagione di innovazione dentro il PD. Un po’ il ritorno alla coperta di Linus. Il secondo, quello rappresentato oggi dalla coppia Giachetti-Ascani, di un azzeramento di fatto dei tanti errori tattici e strategici commessi da Renzi, nella conduzione del Governo e ancora di più del Partito, e quindi di un rilancio al grido di “viva il leader maximo”. Insomma Martina “prima maniera” rappresentava per me la voglia di continuare il percorso riformista e innovativo dentro la sinistra ma non più a guida Renzi e non più affidando la guida ad un leader solitario ma piuttosto ad un collettivo. Come si usa fare nei partiti democratici specialmente nella tradizione italiana. Che ha certamente dei difetti da superare ma non è proprio tutta da buttare. Specialmente oggi che si possono toccare con mano i danni alla struttura democratica del paese della conduzione di partiti, e quindi di istituzioni, guidati da leader solitari, spesso bizzosi, un po’ arroganti e privi del naturale controllo e rendiconto rispetto alla comunità che intendono rappresentare.
Martina, con la sua mozione al di là dei contenuti specifici, ricopriva questo spazio. Oltre Renzi, per una sinistra riformista e contro il ritorno al passato. Insomma una posizione netta che era chiaro fin dall’inizio non avrebbe potuto ambire alla vittoria finale ma che avrebbe potuto rappresentare un punto di riferimento per i tanti riformisti che non volevano abbandonare la strada intrapresa da Renzi ma che nello stesso tempo volevano, anche nei metodi, andare oltre la sua a volte ingombrante presenza.
Con il venir meno della candidatura di Minniti e l’ingresso nella mozione di Martina di gran parte dei militanti della tradizionale area renziana il messaggio della mozione di Martina si è venuto via via affievolendo. E la differenza fra la mozione di Martina e quella di Giachetti è venuta sempre più diventando una differenza di toni piuttosto che di contenuti e di strategia. La presentazione delle liste ha disvelato questo “cambiamento in corso d’opera”. La mozione di Martina si presenta oggi, specialmente in alcune realtà come Firenze, come una mozione a trazione renziana. Dove l’oltre non esiste più e dove si è persa per gran parte la difficile equidistanza fra la mozione Giachetti e la mozione Zingaretti.
E noi riformisti, contrari ai partiti personalistici e contrari alla conduzione totalitaria del momento politico (il partito) e del momento istituzionale (il governo e i governi locali), ci siamo ritrovati “spiazzati”. E allora “che fare”? Le opzioni sono due. La prima è di uscire dal Pd e cercare in altre realtà lo spazio per continuare la battaglia politica per una sinistra innovativa, lontana dai vecchi riti e miti novecenteschi ma che non ha bisogno di leader carismatici ma piuttosto di guide democratiche.
La seconda è quella di puntare su Zingaretti non tanto nella sua parte di riavvicinamento ad una certa tradizione di sinistra, che pur non va demonizzata se si vuole una innovazione vera e non un puro scontro ideologico, quanto nella sua voglia di ricostruire un partito comunità. Cioè un partito realmente democratico, aperto alle differenze e inclusivo di tutte le sensibilità. Con una guida forte e dotata di capacità decisionale ma dentro un sistema di pesi e contrappesi che fanno appunto la democrazia e il controllo.
In questa fase mi sembra che l’ipotesi di puntare su Zingaretti possa avere una qualche possibilità di significato. Oltretutto a Firenze ci sono presenze significativamente riformiste schierate con Zingaretti come quella di Federico Gelli, Rosa di Giorgi, Stefano Bruzzesi, Monia Monni e altri. Insomma è una strada da provare. Anche per dare finalmente una connotazione serena e tranquilla ad un partito che oramai passa da un anno a questa parte da continui sbalzi e contraccolpi che lo rendono irriconoscibile alla gran parte del popolo italiano. E’ ora di ritornare alla politica non come scontro di eserciti, peraltro sempre più piccoli, ma come costruzione di una comunità pensante e che si rispetta. Chissà, forse ce la possiamo fare.
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