L’interrogativo se l’Europa stia andando verso un’altra grave crisi dopo quella del 2008-2014 rappresenta un nodo cruciale non solo dal punto di vista delle previsioni economiche, ma anche del futuro politico del continente. Il risultato delle elezioni in Svezia, storico cuore di una socialdemocrazia avanzata, mostra quanto peso abbia la combinazione di incertezza, insicurezza e ineguaglianza nel rovesciamento di schieramenti consolidati e nell’apertura di fratture nel corpo della democrazia liberale, del tutto inimmaginabili fino a pochi anni fa. La diffusione del populismo si è intensificata con lo “schianto”, come lo ha chiamato Adam Tooze, provocato dalla passata crisi e si è corredata di varianti, che hanno finito per mescolare sentimenti anti-elitari, opposizione al sistema e difesa della “gente comune”, come avevano scritto Daniele Albertazzi e Duncan McDonnell in “Twenty-First Century Populism. The Spectre of Western European Democracy”. Sul tema è in corso da tempo un ampio confronto e alcuni studiosi cercano di approfondire seriamente le ragioni di un fenomeno che sta radicandosi in modo allarmante in varie aree dell’Occidente. Il rischio palpabile è di un allargamento in Europa delle forme della cosiddetta “democrazia illiberale”, un ossimoro dalla dubbia composizione, che accompagna anche i timori per i risultati del nostro Paese. Tra le motivazioni di questa rottura, che sta facendo breccia in settori non secondari della società, vi sono le conseguenze di una situazione critica dell’economia, che non riesce a risollevarsi, nonostante gli sforzi immani dei programmi di ripresa europei. Le opinioni degli economisti, a proposito dello sbocco dell’attuale congiuntura, non sono convergenti. C’è chi sostiene che l’eurozona si stia avviando verso una crisi del debito sovrano, che può diventare insostenibile a causa di scarse capacità di crescita. In questo quadro, una mistura di spesa priva di copertura, tagli indistinti alle tasse e controllo interno sui prezzi dell’energia espanderebbe a dismisura i disavanzi pubblici. C’è chi ritiene che la crisi potrebbe non essere imminente, ma mette in evidenza le debolezze legate alla mancanza di un’unione fiscale, bancaria e politica, riconducibile alla persistenza di una contrarietà dei Paesi dell’Europa settentrionale. C’è chi suppone che sia improbabile la ripetizione della crisi dell’euro del 2011-2012, perché gli assetti e le strategie odierni sono molto diversi. E, infine, c’è chi pensa che l’Europa dovrà affrontare un inverno difficile, con notevoli pericoli di ribasso dei mercati e contrazione del tenore di vita, anche se l’insieme dell’economia appare in buono stato e l’attuazione di interventi adeguati potrebbe evitare una recessione rovinosa. L’elemento unificante di queste posizioni è la preoccupazione per l’assenza di Draghi alla guida dell’Italia e per le sorti del Paese nel caso di prevalenza di forze disposte a violare le regole fiscali dell’Unione Europea. Per lenire questa apprensione, sono necessari segnali chiari su alcuni temi essenziali di politica economica. Innanzitutto, visto che il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza è parte preminente della manovra complessiva europea e che dal suo esito dipende la prosecuzione credibile delle strategie di sviluppo a livello comunitario, vanno accelerati realizzazioni e afflusso di risorse, come si sta provando a fare. A questo proposito, vi è un argomento di discussione, che va ben oltre la campagna elettorale, sulla possibilità o meno di una revisione dei termini del PNRR. Valdis Dombrovskis ha precisato che una modifica del PNRR a causa dell’inflazione andrebbe valutata “caso per caso, con attenzione”. L’Italia potrebbe puntare, da parte sua, a una riallocazione del fondo complementare e a una verifica dell’utilizzo dei finanziamenti nazionali allo scopo di attenuare gli effetti dell’incremento vorticoso dei prezzi, contribuendo a mantener vivi il dialogo europeo e le attività in corso. Inoltre, la scelta del governo di evitare scostamenti di bilancio nell’adozione di misure di sostegno alle imprese e ai cittadini è meritoria, ponendosi l’altrettanto grande problema del contenimento del debito pubblico, le cui ricadute negative colpiscono i giovani e i più deboli. Queste valutazioni dovrebbero condurre, senza ricorrere alla semplificazione improvvida di vecchie ricette monetariste o assistenziali, a decisioni inedite in campo economico, capaci di modulare opportunamente le strategie di crescita con quelle di freno all’inflazione e diversificazione energetica. Tuttavia, non è dato di sapere se prevarranno forze e iniziative volte a proseguire una saggia politica di coordinamento europeo o se la frammentazione prenderà il sopravvento. Un salto nel buio sarebbe poco propizio, soprattutto per l’Italia. Perciò, i fautori di una coerente prospettiva europea dovrebbero fornire le soluzioni giuste. William H. Janeway, venture capitalist ed economista americano, in un lungo e stimolante articolo su Project Syndicate, conclude la sua analisi sulla crisi della democrazia, notando che: “Ora che la guerra della Russia in Ucraina ha causato forti picchi nei prezzi dei combustibili fossili e carenze critiche di energia – e questo in un contesto di crescenti disastri causati dal clima – è plausibile che il deterioramento delle condizioni odierne possa portare a un rinnovamento di politiche e programmi progressisti”. Confidiamo di non dover attendere inani, come Giovanni Drogo e gli altri militari della Fortezza Bastiani, l’arrivo di questo auspicabile momento.
(questo articolo, con il consenso dell’autore, è ripreso dal quotidiano Il Mattino)
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