Il PD nasce dall’incontro fra la cultura del comunismo democratico italiano e la cultura sociale cattolica. In termini politici dall’incontro fra l’ex pci e la ex dc sociale. Il nuovo PD cosa dovrebbe mantenere e cosa dovrebbe aggiungere a questi filoni culturali?
Il PD è nato per superare una cesura novecentesca che si era creata per cause geopolitiche note a tutti noi. Senza la caduta del Muro di Berlino e la fine dell’URSS il PD non sarebbe mai esistito. Seppur non fosse una novità avere una stretta collaborazione di alcune forze politiche quali PC e DC, soprattutto a livello locale, farle confluire in un solo Partito era una scelta innovatrice. Non solo, il PD cercava di coagulare anche altre culture politiche oltre a quelle del comunismo italiano e della democrazia cristiana. Una forza riformista tout court, in cui il dibattito interno si sarebbe dovuto strutturare sul radicalismo di questa spinta riformista. È evidente che è successo solo in parte. Perché non è accaduto? In primis il PD ha smesso ben presto di essere un Partito. Da una parte, come molte altre forze politiche, si è contraddistinto sempre più per personalismi fuori controllo. Non solo tra gli esponenti di spicco a livello nazionale, ma anche nelle regioni e nelle città. Il senso di comunità, di un destino che vada oltre le legittime aspirazioni personali si è perso. Se solo pensiamo che degli ultimi tre segretari due sono usciti dal Partito il terzo si è dimesso affermando “nel partito si parla solo di poltrone, mi vergogno” è ovvio che qualcosa non funziona. Dall’altra il PD si è trasformato nella forza governista per antonomasia. È da anni che si “ritrova” al governo senza vincere le elezioni. Tutto ciò falsa il vero dibattito interno con il risultato di una sostanziale sclerotizzazione. Il congresso che stiamo vivendo, incapace di suscitare una qualche forma di entusiasmo o interesse tra gli iscritti, figurarsi tra i non iscritti, è il risultato di questo processo. Chiunque diventerà segretario/segretaria deve affrontare questi mali. Ma le radici culturali del PD erano e sono chiare. Certo vanno aggiornate, approfondite, contestualizzate, ma il perché politico e culturale della sua nascita risponde ad una esigenza ancora chiara ovvero avere una forza politica riformista, radicalmente riformista, che renda pratica quotidiana quanto è scritto nella Costituzione italiana, mi riferisco in particolare alla prima parte. E non è un caso che la nostra Costituzione sia stata scritta grazie all’apporto di molte delle culture politiche che poi sono confluite nel PD. Il nuovo segretario dovrà far partire una discussione sul futuro del PD e farlo stando all’opposizione a Roma è una condizione ideale. Potrebbe essere l’ultima occasione per il PD di ritrovarsi e darsi una missione politica altrimenti il rischio è di diventare irrilevanti.
Il PD è nato come partito a vocazione maggioritaria. È ancora attuale questa impostazione?
La vocazione maggioritaria era legata ad un sistema elettorale che non c’è più. Il PD però deve ambire ad essere il primo partito a livello nazionale ma soprattutto ad essere il centro di gravità di alleanze progressiste che poi si definiscano anche in forma asimmetrica sui territori. Certo è fondamentale tornare ad un sistema che permetta ai cittadini di votare il proprio candidato in Parlamento. Questo non è solo doveroso ma è anche vantaggioso per il PD, un partito che è capace ancora di esprimere in molti territori una classe dirigente radicata e apprezzata. Questo congresso speriamo porti a destrutturare le aree come le abbiamo conosciute oggi e consenta un rinnovamento della classe dirigente senza velleitarismi perché la tanto vituperata classe dirigente romana è di certo autoreferenziale ma allo stesso tempo assolve ancora oggi una funzione di governo del Partito e raccordo che è essenziale in un PD che ambisce a raccogliere consensi dal nord al sud e alle isole. Sempre, beninteso, non si voglia che il Partito diventi un partito liquido nel quale poi non si capisca chi governi o un Partito leaderistico che nasce e muore assieme al suo leader.
Il problema delle disuguaglianze sociali è uno dei principali fenomeni da affrontare nell’attuale fase dello sviluppo economico mondiale. Nella tradizione della sinistra italiana questo tema è vastato affrontato principalmente attraverso un approccio laburista. Diffondere formazione e competenze, abbattere blocchi all’ingresso nel mondo del lavoro e favorire la collocazione dei gruppi e dei singoli svantaggiati attraverso serie politiche attive. Il Rdc propone un altro approccio al tema. Cosa pensi in proposito?
Viviamo in un periodo in cui non si è mai creata così tanta ricchezza a livello globale ma le diseguaglianze aumentano (soprattutto in paesi come l’Italia che ha un enorme problema di crescita). Le politiche redistributive erano e devono essere al centro del programma politico del PD. Meccanismi simili a quello che chiamiamo reddito di cittadinanza esistono in gran parte dei paesi europei. È giusto sostenere chi non riesce a trovare un proprio ruolo nel mondo del lavoro? Sì. Altra cosa sono usi distorti se non fraudolenti. Però c’è da chiedersi perché “domanda” ed “offerta” fanno sempre più fatica ad incrociarsi? Negli ultimi tempi questo è un fenomeno non solo italiano. Per anni si è pensato che il solo problema fosse il costo del lavoro e così i salari sono rimasti inchiodati soprattutto in Italia. Ma non basta un salario adeguato, servono anche modalità di lavoro differenti rispetto al passato. Flessibilità negli orari, possibilità di lavorare da remoto ad esempio. Certo non vale per tutti i lavori ma per buona parte del settore terziario sì. È miope pensare che i giovani non vogliano lavorare o non siano pronti a fare sacrifici. Certi interventi che mettono in dubbio la voglia di lavorare dei giovani sono risibili e sembrano nascondere più l’incapacità di interpretare il presente di chi li enuncia anziché una analisi lucida. Forse sarebbe più corretto rendere il nostro mercato del lavoro simile ad altri paesi europei. In Germania esistono un salario minimo, un meccanismo simile al reddito di cittadinanza, leggi che aiutano le aziende a formare i proprio dipendenti e i lavoratori contano molto di più nel sistema di governance aziendale. Un partito di sinistra deve tenere al centro il tema del lavoro sapendolo coniugare con i tempi in cui viviamo a partire da misure che garantiscano una maggiore conciliazione dei tempi di vita con i tempi del lavoro.
Sul tema ambientale col pd ha scelto una strada netta: decarbonizzare il sistema per cercare di delimitare gli effetti negativi del cambiamento climatico e puntare su un serio piano di mitigazione degli effetti. Il piano per la mitigazione richiede forti investimenti per i prossimi trent’anni. Siete disposti a sostenere più investimenti e meno spesa corrente? E a dirottare investimenti verso la mitigazione (acqua, rischi naturali, calore innalzamento del mare etc)
Francamente non farei una differenza così netta tra spesa corrente e spesa per investimento. L’approccio alla transizione ecologica deve essere integrato e influire in ogni scelta. Alex Langer aveva scritto: “La conversione ecologica potrà affermarsi solo se apparirà socialmente desiderabile”. Ora siamo entrati in questa fase perché esiste, tranne in poche frange settarie e sconsiderate seppur influenti, un consenso generalizzato affinché la conversione ecologica si debba realizzare. Altrimenti rischiamo una transizione conflittuale o peggio un vero e proprio crollo del sistema nel quale viviamo. È da anni, per tornare a Langer, che gli studi su scenari futuri mettono assieme scenari ambientali e variabili socioeconomiche. Certo le contraddizioni e le resistenze sono enormi. Un esempio lampante è la città dalla quale vi scrivo: Venezia. La città storica è oramai ridotta a ben pochi abitanti, un sistema economico asservito all’economia turistica dall’enorme impatto sociale negativo e intanto la salvaguardia ambientale segna il passo. Venezia, intesa nella sua accezione metropolitana, è un ottimo banco di prova per realizzare nei fatti un incontro tra salvaguardia fisica, ambientale con driver economici differenziati e variegati. Solo così daremo vita ad una transizione ecologica completa. Ma c’è ancora molto da fare ed inutile negare che molti amministratori locali, come chi governa oggi Venezia, non abbia una strategia al riguardo.
Il rapporto stato mercato è un punto sensibile per la sinistra. C’è tradizionalmente una fiducia ex ante forte per lo stato, mai verificata ex post, e d’altra parte una sfiducia non sempre motivata sul mercato. Il nuovo pd come deve posizionarsi sulla dicotomia stato/mercato?
Parte della sinistra italiana ha già fatto troppa fatica per accettare l’economia di mercato e non tornerei certo indietro. Però la parola dicotomia significa “separazione netta”. Ma non è così. Il mercato va attentamente regolato. Inoltre, ci sono paesi in cui nelle grandi aziende il ruolo del sindacato è molto più forte che da noi come in Germania. Sempre in Germania, ma anche in Francia, l’intervento dello Stato in settori considerati strategici è molto forte. E senza uno Stato regolatore di certo saremmo destinati ad avere ancor più diseguaglianze di quanto oggi ne conosciamo. Non solo, esistono forze di produzione di beni e servizi in Italia che sono figlie della grande tradizione mutualistica (anche se molte cooperative oggi sono ben lontane dallo spirito con le quali sono state pensate) per non dimenticare il ruolo del terzo settore. Insomma, nessun revanchismo, ma nemmeno supina accettazione di un modello liberista in cui peraltro il sistema finanziario ha assunto un peso abnorme rispetto all’economia reale. Su questi aspetti assume sempre maggiore importanza l’Unione Europea: l’Europa deve essere la forza politica che a livello mondiale afferma la necessita di uno sviluppo equilibrato, equo e sostenibile. È in gioco il senso stesso politico dell’Europa e quindi dell’Italia.
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