Il PD nasce dall’incontro fra la cultura del comunismo democratico italiano e la cultura sociale cattolica. In termini politici dall’incontro fra l’ex PCI e la ex DC sociale. Il nuovo PD cosa dovrebbe mantenere e cosa dovrebbe aggiungere a questi filoni culturali?
Il Partito Democratico nasce con ritardo, nel tentativo di superare l’inadeguatezza delle grandi culture politiche progressiste e riformiste del ‘900 nell’affrontare i profondi mutamenti locali e globali. E quindi era necessario ripensare strutturalmente una grande alleanza riformista, democratica, progressista, che desse finalmente al nostro paese la possibilità di un partito innovatore, capace di attuare quelle riforme che per troppo tempo erano state bloccate. Non era nemmeno sufficiente pensare al Partito democratico nascente come sommatoria delle antiche forze, si trattava invece di partire dalle comunità di origine per creare una nuova comunità di destino. Bisognava costruire qualcosa di nuovo, di innovativo, capace di rispondere alle esigenze dell’oggi, non di ieri. Ed è per questo che il Partito Democratico, come pluralità di culture che fanno sintesi, è tanto necessario anche oggi.
Il PD è nato come partito a vocazione maggioritaria. È ancora attuale questa impostazione?
È attualissima. Vocazione maggioritaria vuol dire un partito che vuole trasformare i propri valori e le proprie visioni in forza di governo, che dovrebbe essere l’ambizione di tutte le forze politiche. Maggioritario non vuol dire indipendente, avulso dalla necessità di far alleanze, ma vuol dire che pensa innanzi tutto a sé stesso, per essere credibile nel paese, nel definire le linee programmatiche e l’asse valoriale fondamentale. E, una volta fatto questo, si apre alle alleanze necessarie. È tanto necessario un PD, quindi, che non sia una forza minoritario o protestataria antisistema, ma che sia forza di maggioranza riformare il paese, capace di aggregare all’interno di un disegno comune le forze sociali, culturali, economiche. Questo è quello di cui l’Italia ha bisogno.
Il problema delle disuguaglianze sociali è uno dei principali fenomeni da affrontare nell’attuale fase dello sviluppo economico mondiale. Nella tradizione della sinistra italiana questo tema è vastato affrontato principalmente attraverso un approccio laburista. Diffondere formazione e competenze, abbattere blocchi all’ingresso nel mondo del lavoro e favorire la collocazione dei gruppi e dei singoli svantaggiati attraverso serie politiche attive. Il Reddito di cittadinanza propone un altro approccio al tema. Cosa pensi in proposito?
Il tema delle disuguaglianze è quanto mai attuale, ed è stato reso ancor più drammatico in occidente dalla globalizzazione. Le analisi di Milanovic sono da questo punto di vista fulminanti. Fanno vedere come la globalizzazione ha portato certamente all’innalzamento della qualità della vita, del reddito e del benessere in molte parti del mondo, ma ha impoverito l’Occidente, dove la borghesia ha perso potere d’acquisto e le fasce più povere lo sono diventate ancora di più. Dobbiamo ripartire dalla Costituzione, con politiche attive che consentano davvero quell’uguaglianza non solamente formale ma sostanziale. È questa la grande missione che il PD deve compiere non mettendo in contrapposizione la giustizia sociale con la crescita, ma tenendo insieme le due. D’altro canto senza l’una non ci può essere l’altra e viceversa. Il reddito di cittadinanza parte da un’esigenza reale, cioè quello di contrastare la povertà crescente e la disuguaglianza sociale assolutamente inaccettabile. Ma la ricetta è assolutamente da migliorare. Io sono per ripartire dal Reddito di inclusione, perché collega l’assistenza non all’assistenzialismo perpetuo, ma alla capacità del riscatto. Il lavoro è per il riscatto sociale e l’intervento pubblico deve essere fatto per dare la possibilità alla persona di riscattarsi, non di vivere in eterna assistenza.
Sul tema ambientale col PD ha scelto una strada netta: decarbonizzare il sistema per cercare di delimitare gli effetti negativi del cambiamento climatico e puntare su un serio piano di mitigazione degli effetti. Il piano per la mitigazione richiede forti investimenti per i prossimi trent’anni. Siete disposti a sostenere più investimenti e meno spesa corrente? E a dirottare investimenti verso la mitigazione (acqua, rischi naturali, calore innalzamento del mare etc.)
La mitigazione da sola non è più sufficiente, va affiancata dall’adattamento. Lei mi parla di costi: ha presente a quanto ammonterebbero i costi delle devastazioni dovute all’inazione: collasso idrogeologico, immigrazioni dovute alla siccità, impoverimento, aumento delle malattie, diffondersi dei virus, solo per fare qualche esempio. Il vero problema non è il costo che dobbiamo affrontare per adattarci e per mitigare, ma è il costo che dovremmo affrontare, spaventoso, se non facessimo niente. È questa la vera questione. ll Partito Democratico deve scegliere in maniera assolutamente determinante questa strada, l’unica, peraltro, capace di creare prosperità, benessere, giustizia. In questa prospettiva la transizione ecologica va declinata tenendo insieme la sostenibilità ambientale, quella economica e quella sociale.
Il rapporto stato mercato è un punto sensibile per la sinistra. C’è tradizionalmente una fiducia ex ante forte per lo stato, mai verificata ex post, e d’altra parte una sfiducia non sempre motivata sul mercato. Il nuovo PD come deve posizionarsi sulla dicotomia stato/mercato?
La dialettica stato/mercato, è una dialettica antica e dunque contemporanea. L’economia di mercato, alla prova dei fatti, non ha trovato sistemi migliori. Le economie pianificate di stile sovietico hanno già avuto la risposta dalla storia. Ritengo che ci siano state delle storpiature, soprattutto dal punto di vista finanziario, quando l’economia viene sganciata dalla finanza, e quindi perde di vista il valore dell’uomo e della persona, e perde di vista fondamentalmente il fatto che l’economia è fatta per la persona e non viceversa e le regole dell’economia non vengono e non nascono dalla mente di Giove, ma nascono dalla mente degli uomini e quindi sono sempre perfettibili. Alla luce di questa premessa, io credo in un’economia sociale di mercato, termine peraltro usato anche nei documenti dell’Unione europea.
Bruno Colle
Non condivido l’ottimismo del Presidente Carella sul futuro del PD, ma non intendo infierire sul delicato momento di un Partito travagliato dalle divisioni interne e dalle inchieste dei magistrati belgi.
IInnanzj tutto non ritengo si possa parlare di “comunismo democratico “. I comunisti hanno certamente contribuito a fare passi avanti all’umanità nella filosofia e nel sociale, ma non sono mai stati ” democratici “, .Dovunque abbiano governato : dalla Russia all’ Est Europa, dalla Cina a Cuba, il comunismo non è mai stato democratico.
E neppure in Italia il PCI poteva definirsi “democratico” , almeno fino al “””””compromesso storico ” voluto da Berlinguer.
Negli anni ’90 si concretizza poi il matrimonio fra ex-comunisti e democristiani di sinistra che porterà al Governo Prodi e alla fondazione del Pd.
A questa alleanza si devono comunque attribuire alcuni errori che hanno in qualche modo frenato l’evoluzione democratica del Paese.
1 ) aver abbandonato, senza pagare pegno, alla ferocia dei giudici milanesi le sorti di Craxi di Forlani i di alcuni Ministri liberali .
2 )aver cacciato da Palazzo Chigi un leader autorevole e popolare come Natteo Renzi
3)Aver affossato ( complice anche Berlusconi ) una propostadi riforma istituzionale e costituzionale che cu avrebbe tolto dallew attuali “secche” giuridicge e parlamentari.
detto ciò .complimenti a “Solo Riformisti e auguri di successo al “Terzo Polo” soprattutto in Lombardia
NNanzi