C’eravamo tanto amati. Conviene cominciare così la discussione sul futuro del PD. Perché non solo di quello si parla. Ma più in generale di quella che è stata la “sinistra democratica” in italia nella esperienza della prima Repubblica con il Pci e il Psi e poi, con la caduta del muro, nelle varie esperienze di avvicinamento al PD. E quindi con il PD.
La caduta del muro e il successivo, definitivo, abbandono dell’utopia comunista e ancor di più dell’esperienza del comunismo reale hanno rappresentato una cesura fra il prima e il dopo. Dal 1989 in tutto il mondo, ma ancora di più in Italia dove c’era tradizionalmente un forte partito comunista, si è cercata una strada non comunista e per alcuni versi neppure socialista per dare una rappresentanza e un programma al popolo di sinistra.
Parlando dell’Italia, è stata una ricerca fuori dalla tradizione in alcuni momenti (fra cui va annoverata l’esperienza veltroniana per un verso e l’esperienza renziana per un altro, con aspetti di personalità e di contenuto abbastanza differenti) ed invece in continuità con i due segretari “forti” della Ditta come Fassino e Bersani. Ma il risultato, pur con alti e bassi e sprazzi di luce, non è stato mai soddisfacente.
Certo ci sono state vittorie elettorali, capacità di aggregazione momentanea in particolare intorno alla figura di Prodi e nel contenitore ampio, e per alcuni versi rassicurante, dell’Ulivo ma il PD non è mai riuscito davvero ad aggregare in termini strategici quel popolo di sinistra intorno al proprio simbolo. Ed anche il 40% raggiunto dal Pd di Renzi è sembrato più un successo personale e momentaneo di un “leader nuovo”, in tutti i sensi, piuttosto che l’esito della riuscita costruzione del nuovo partito della sinistra italiana.
Il fatto è che gli elementi ideologici che hanno dato la “base ideale” al PD e anche gran parte del gruppo dirigente “stabile”, che sono principalmente il comunismo democratico italiano, il socialismo italiano e il cattolicesimo democratico, hanno rappresentato al massimo un buon punto di partenza per una nuova esperienza ma certamente non il motore per la costruzione di un partito nella nuova era politica italiana e internazionale.
Il PD è rimasto, sia in termini ideologici sia in termini di gruppi dirigenti, un sistema stabile (e questo per alcuni versi ne ha decretato il suo successo) ma fermo (e questo ne ha decretato in parte il suo insuccesso e anche la sua difficoltà a cambiare).
Di fronte ad una doppia difficoltà da una parte ad amalgamare le tre vecchie ideologie costitutive, magari anche rinnovandone i fondamenti, e dall’altra ad introdurne e generarne delle nuove, più capaci di dare risposte al “mondo nuovo”, il PD ha preferito “buttarsi sulla amministrazione”. Cioè dedicarsi alle cose da fare con una forte dose di continuità, con una forte esperienza istituzionale e dei processi amministrativi, con una serietà di fondo e adeguati legami internazionali ma con una attenzione ai cambiamenti della realtà economica, sociale, ambientale, demografica e politica veramente bassa e priva di “slancio vitale”.
Il gruppo dirigente del PD, privo di una visione unitaria e innovativa su ciò che il mondo stava producendo in tutti i campi e privo, per questo, di una batteria di strumenti di intervento adeguati ai “problemi dell’oggi”, ha preferito o è stato costretto ad occuparsi del mantenimento dello status quo. Pensando così di diventare non solo il punto di riferimento del popolo di sinistra grazie alla ripetizione continua, e sempre più sbiadita, di alcune “parole d’ordine” del vecchio armamentario comunista, socialista e cattolico democratico ma anche di una opinione pubblica vagamente democratica che per il PD risultava più impaurita dai “veleni” del nuovo scenario politico (razzismo, sovranismo, populismo, etc) che delusa dai programmi e dalle parole d’ordine del PD.
In parte questa “bassa gestione” ha funzionato e il PD è riuscito ad essere agli occhi di una parte importante del paese, come il partito “necessario” per il Governo. Capace di rappresentare una garanzia di correttezza e stabilità in una fase internazionale e del paese sempre più turbolenta e caotica.
Ma poi il “giocattolo” si è rotto e il “re è rimasto nudo”. In un mondo caotico si può reggere per un po’ di tempo con la stabilità delle istituzioni. Ma poi il dilemma si presenta: o si dà una qualche risposta alla turbolenza, facendo entrare nelle istituzioni alcune delle istanze di cambiamento che si muovono nella società, oppure le istituzioni saltano.
La prima strada sta dentro il sistema democratico, la seconda è, comunque la si realizzi, un evento rivoluzionario. Per il momento in Italia si sta verificando la prima ipotesi. Le forze di cambiamento stanno entrando con modalità democratiche e con obiettivi di cambiamento di tipo riformistico dentro le istituzioni. E stanno cercando di portare pezzi del “caos economico e sociale” dentro processi ordinati di cambiamento. Con alterni risultati, si pensi al primo Governo gialloverde e al suo fondamentale insuccesso di trasformazione. Ma il tentativo, e forte, c’è stato. Si pensi al nuovo Governo di centrodestra che è ancora presto per valutare. Ma le idee di cambiamento appaiono decise. Insomma, la comunità italiana si sta “ribellando” con metodo democratico, e questo è un bene, alla stasi della politica delle istituzioni. E ai programmi che per anni si sono susseguiti di amministrazione dello “status quo”. Il PD in questo processo di cambiamento se ne sta fuori. Non ha le idee e la visione per rappresentare una parte importante della comunità nazionale (altro che vocazione maggioritaria!) e per indicare una via di cambiamento riformistico del paese e, per propria costituzione e provenienza, non ha in alcun modo la capacità di intercettare i “motori sociali” dell’attuale turbolenza. Perché questi sono disordinati, contraddittori, parziali e culturalmente eversivi. E non sono quindi ordinabili e leggibili con le “vecchie idee” del PD.
Di fronte a tutto ciò il PD ha due vie, strette e difficili, da percorrere. Ambedue richiedono una forte innovazione ideologica e una chiara scelta di fondo.
La prima strada porta il PD ad essere un altro, ulteriore, partito della crisi sociale, assieme a M5s, Lega, FdI, che fonda la propria rappresentanza nelle aree di crisi cercando di dare risposte parziali ai temi del paese, risposte identitarie e forte combattività sociale (e perché no di linguaggio). Perdendo in tal modo la propria iniziale vocazione maggioritaria e cercando una egemonia di vicinanza sociale piuttosto che di impostazione programmatica per una profonda riforma sociale.
La seconda strada è quella inizialmente tentata dal PD di diventare il partito del popolo della sinistra ma anche del paese cercando però, a differenza dell’esperienza in atto, di innovare profondamente ideologia e gruppi dirigenti. Il cambiamento dell’ideologia di fondo può avvenire andando a fare i conti con il pensiero contemporaneo e con la cultura di sinistra non necessariamente socialista e statalista. Il PD non può aspettare dentro il suo “fortino” con la sua iniziale dotazione di entrata nel mondo della politica. Fuori da lì c’è tanta roba. Ci sono tante idee, tanti nuovi approcci e tante teorie economiche, sociali e ambientali. Vanno conosciute e riconosciute. E non si può pensare di andare avanti solo con le innovazioni, pur importanti, del femminismo e dei diritti delle differenze di genere e di orientamento sessuale. E dentro questo processo di arricchimento e di trasformazione ideologica deve andare di pari passo, anzi con maggior lena, il cambiamento dei gruppi dirigenti. Non per senso di “rivalsa”. Ma perché le idee corrono sulle spalle degli uomini e delle donne. E, ancor di più in questa fase, ci vogliono gambe e spalle nuove e capaci di correre e di sopportare pesi.
Il PD deve scegliere e andare avanti per una strada. Restare fermi è una scelta possibile. Ma ho l’impressione che sarebbe una scelta priva di futuro. “Buon viaggio PD”.
Angelo Formichella
Analisi ineccepibile in cui mi riconosco. Aggiungo solo che il processo di rinnovamento ideologico e programmatico andrà , parallelamente alla dimensione nazionale, avviato anche nei vari livelli dell’amministrazione territoriale. Sui territori il PD ancora regge ma, se non interviene anche lì, il rischio di un allargamento della perdita della ” ragion d’essere ” ( che è ciò che è venuto meno a livello nazionale, ovvero non c’è più bisogno del PD per stabilità, europeismo, ecc…) potrebbe subentrare