Inutile girarci attorno, quella del Partito Democratico è una crisi esistenziale.
Non nel senso che dalla sua soluzione ne dipende la sorte – perché quella, mi pare evidente, è definitivamente segnata – ma perché investe, e dal profondo, le ragioni della sua stessa condizione umana per aver preferito in questi anni sprofondare dentro il proprio ombelico anziché sforzarsi di uscire fuori e guardare alla realtà che la circonda e tentare di dare una prospettiva futura al proprio elettorato.
Dalla “non sconfitta” (Bersani dixit) del 2013 al Patto del Nazareno, dal #senzadime con il quale Renzi blocco il tentativo di dialogo tra Movimento 5 Stelle e Partito Democratico nel 2018 a #lamossadelcavallo che portò alla nascita del governo Conte bis a Letta capace di suicidarsi due volte per essere stato capace di passare da “Il Partito Democratico ha un solo nome per la guida del governo del cambiamento ed è quello di Giuseppe Conte” a Conte traditore dell’Italia, la storia del Partito Democratico è una storia di continui ordini e contrordini con i quali la sua dirigenza ha tentato di camuffare la crisi del suo ruolo nel panorama politico italiano.
E questo vuoto di contenuti già si vede chiaramente con l’autocandidatura alla segreteria di Paola De Micheli a poco meno di 24 ore dalle dimissioni di Letta da segretario del partito che dice “Ho 49 anni, un curriculum fitto e la voglia di spendermi in qualcosa di importante” come se fare il segretario del più grande partito della sinistra sia un concorso alle poste o al catasto, o con l’eterocandidatura Elly Schlein – quella che per definirsi (“sono una donna”) sente il bisogno di negare qualche altra cosa (“ma non sono una madre”) – che al PD non è neanche iscritta.
Per non dire del buon Carlo De Benedetti – tessera n. 1 del Partito Democratico – che adesso ne chiede financo lo scioglimento, dopo che per anni – grazie alle campagne del suo quotidiano – ne ha sterilizzato la funzione dialettica impantanandolo nell’antiberlusconismo ideologico e militante.
E, come se tutto questo surreale casino non fosse ancora abbastanza – c’è pur sempre una guerra, dagli esiti imprevedibili, in corso al confine dell’Unione Europea che ha già fatto migliaia di vittime ed una crisi energetica che rischia di cancellare quel poco di industria manifatturiera che c’è rimasta oltre che a lasciarci al freddo – ecco allora che, dopo l’accusa di tradimento dell’Italia, parte l’inseguimento al Movimento 5 Stelle con il buon Stefano Bonaccini secondo cui “Eravamo tutti d’accordo a non fare un’alleanza elettorale con i 5 stelle dopo la caduta del Governo Draghi non era possibile ricucire con loro. Invece dopo il voto, io penso che sia indispensabile discutere con tutti quelli che si troveranno in un’alleanza progressista”, che è come dire “visto che gli elettori pensano che il vero partito progressista sia il Movimento 5 Stelle, andiamo a bussare alla sua porta dicendo che anche noi crediamo che il Movimento 5 Stelle sia un partito di sinistra”.
Tant’è che l’avvocato del popolo in pochette – quello che canta vittoria perché, dopo tutto, ha perso solo la metà dei suoi voti – invece di rivolgersi ad un bravo psicanalista maramaldeggia sul corpo martoriato del Partito Democratico chiedendo la testa del suo attuale segretario e pretendendo di essere lui a dover fare l’esame di progressismo al Partito Democratico (“Valuteremo il percorso del Partito Democratico e, da li, se ci sono le condizioni per riallacciare il dialogo”).
Con il che si comprende come quella del 25 settembre, più che una disfatta elettorale, sia un’ecatombe epocale paragonabile solo a quella che provocò la scomparsa dei dinosauri. Altro che camposanto.
Quel che dalle parti del Nazareno si continua a non comprendere con l’assurdo dibattito sul prossimo segretario è che le elezioni politiche hanno segnato la fine di un mondo del tutto fantastico dove ai problemi reali posti dalla globalizzazione e del mondo multipolare, il Partito Democratico ha risposto spostando la propria rappresentatività da quella dei cittadini e dei produttori a quella dei consumatori, delle minoranze transezionali varie ed offrendo soluzioni divisive della società fondate sull’insopportabilmente vacuo e pernicioso buonismo dell’accoglienza senza integrazione, dell’egalitarismo senza uguaglianza, dell’assistenzialismo senza la dignità del lavoro, dell’ambientalismo senza la nettezza urbana, salvo poi scaricare sul singolo segretario la responsabilità del rifiuto opposto dagli elettori alle sue proposte, come se l’intera sua classe dirigente vivesse su Marte e non avesse responsabilità alcuna riguardo ad esse.
Perché, con buona pace di chi continua a guardare al dito quanto il dito indica la Luna, il punto è proprio questo: gli italiani – oltre a premiare l’unità, vedremo quanto realmente maggiore, del centro-destra – hanno innanzitutto respinto, e con una maggioranza decisamente solida visto che lo stesso può dirsi per chi ha votato il Terzo Polo – l’approccio divisivo della società del Partito Democratico – emblematicamente rappresentato dallo slogan, “Scegli”, usato per la campagna elettorale – e che, non a caso, è la cifra politica del governo Conte 2 (quello che bollava a dir poco odiosamente di “negazionismo” chiunque chiedesse trasparenza sulle misure di prevenzione della pandemia) e l’esatto contrario di ciò che è stato il governo Draghi che, pur a fronte di provvedimenti discutibili come il green pass, non ha mai indugiato nel becero moralismo ma ne ha fatto sempre una questione di ritorno alla normalità.
Dopo la dipartita per l’Africa di Veltroni – che pur un’idea complessiva di società esprimeva con il suo “I care” – il Partito Democratico ha cioè rinunciato alla vocazione maggioritaria – che presuppone l’idea di rappresentare la parte più grande della società – e l’ha sostituita con la vocazione alla partigianeria autoreferenziale, e cioè con l’idea di avere la rappresentanza della parte migliore della società per cui chiunque, di volta in volta chiedesse tasse più basse, una maggiore sicurezza nelle strade o una giustizia più rispettosa della Costituzione, fosse un evasore parassita, un razzista o un pericoloso delinquente.
E da qui al populismo massimalista del Movimento 5 Stelle che gli ha portato via non solo i voti ma l’etichetta stessa di partito di sinistra è stato un attimo.
In un contesto, infatti, in cui le crisi internazionali ed economiche che ci trasciniamo irrisolte dagli inizi degli anni 2000 hanno aggravato la frammentazione della società (ztl/periferia, nord/sud, garantiti/non garantiti, uomini/donne…), puntare sulla polarizzazione dell’elettorato s’è rivelato del tutto controproducente: non solo perché si è accettato di competere sul terreno preferito dai massimalisti, ma perché si è rinunciato a svolgere il ruolo di composizione degli interessi e di mediazione con il potere statale che è il primo compito di un partito in una democrazia.
Il Partito Democratico – prim’ancora che negli appelli dei suoi intellettuali di riferimento e nell’agire sgangherato della sua classe dirigente che predica in un modo ed opera in quello opposto – è cioè venuto meno al suo concreto essere un luogo di mediazione e di elaborazione di idee e per questo gli elettori, prima che bocciarlo, lo hanno archiviato definitivamente qualunque cosa succederà dopo le dimissioni di Letta.
Una lezione importante, utile anche per i riformisti del Terzo Polo se non vogliono fare la stessa fine.
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