La scelta tra mantenere o abolire il reddito di cittadinanza si deve fondare sui risultati, non sull’avversione politica o il pregiudizio ideologico, ed i risultati sono assolutamente inferiori alle necessità ed alle aspettative, tenuto delle ingenti risorse pubbliche – oltre 20 miliardi di euro nel solo primo anno e mezzo – che il provvedimento ha assorbito e con le quali si è comprato consenso a man bassa: i risultati delle ultime elezioni politiche sono lì a mostrare, con cristallina evidenza, la correlazione tra percentuale di percettori di reddito di cittadinanza e voto al movimento Cinquestelle di Conte, nel ruolo di Evita Peron italiana alla guida dei descamisados nazionali.
Nei primi sette mesi del 2022 (periodo gennaio-luglio) i nuclei beneficiari di almeno una mensilità di Reddito di Cittadinanza (RdC) o di Pensione di Cittadinanza (PdC) sono stati 1,6 milioni, per un totale di 3,5 milioni di persone coinvolte, delle quali oltre la metà nel Sud e nelle Isole
I risultati
Che i risultati del provvedimento sarebbero stati impossibili da raggiungere – per il numero dei potenziali beneficiari – era chiaro sin da subito sia per la confusione/sovrapposizione tra misure per aiutare i più deboli e fragili (secondo il cammino avviato con il REI del governo Renzi) con sussidi economici e servizi per l’inclusione e misure per il contrasto della disoccupazione attraverso politiche attive per il lavoro, indirizzate agli occupabili.
Alla confusione degli obiettivi si accompagnava un modello di gestione delle misure che presupponeva una pubblica amministrazione al massimo della sua efficienza, che non c’era e non c’è.
Pensiamo solo al versante delle politiche attive, per le quali da sempre si lamenta la scarsa capacità dei centri per l’impiego di favore l’incontro fra domanda ed offerta di lavoro. Ci si è affidati ad un guru arrivato dal Mississipi, il professor Mimmo Parisi, con il ricorso all’impiego delle piattaforme tecnologiche e con l’assunzione di quasi 3.000 navigator che avrebbero dovuto, in collaborazione con i Centri per l’impiego, scoprire le opportunità di lavoro e favorire le assunzioni. I dati ci dicono che solo il 4,50% degli occupabili ha trovato un lavoro a tempo indeterminato, anche per le scarse competenze ed esperienze lavorative possedute che avrebbero imposto efficaci percorsi di formazione e aggiornamento professionale. I dati parlano di un contatto al giorno per ogni navigator impiegato, così come ci dicono della scarsa efficienza il fatto che nei tre anni di attivazione del RdC non si sia registrato neppure un solo caso di decadenza per rifiuto di “offerta congrua”: i soli, pochissimi, casi di decadenza (30 in tutto) sono stati causati dall’irreperibilità al domicilio.
Sul versante del contrasto alla povertà, senza entrare nel merito dei meccanismi di individuazione dei beneficiari tra i non occupabili (non coincidenti con la platea di poveri assoluti individuati dall’ISTAT) e della verifica della sussistenza dei requisiti previsti (le cronache ci riportano quotidianamente notizie su truffe più o meno consistenti scoperte ovunque in Italia) è apparsa particolarmente grave l’inazione dei comuni che erano tenuti a proporre Patti per l’inclusione sociale (PaIS), che spaziavano dall’impegno alla regolarità della frequenza scolastica dei minorenni al sostegno psicologico degli adulti: al 1° marzo 2021 i nuclei beneficiari di RdC presi in carico dai servizi sociali erano meno del 30% e ancora meno quelli che avevano sottoscritto un patto di inclusione, un fallimento totale perché la povertà non è solo insufficienza di reddito ma anche solitudine, emarginazione sociale, disagio individuale.
Ricordiamo tutti la polemica contro i percettori seduti sul divano, senza dar niente in cambio di quel che ricevevano. Eppure c’era una disposizione che obbligava i beneficiari adulti di RdC, indipendentemente da dove fossero indirizzati (CpI o Servizi Sociali), a garantire la propria disponibilità a partecipare a progetti utili alla collettività (PUC): le attività previste in questi progetti potevano le più varie, culturali, sociali, ambientali, formative, artistiche e di tutela dei beni comuni, con un impegno dalle 8 alle 16 ore settimanali, e potevano essere realizzati autonomamente dagli stessi Comuni oppure affidandone la gestione a soggetti del territorio, fra cui le associazioni del terzo settore. Ovviamente c’erano le complicazioni del predisporre un paino per il quale gli interpellati destinatari dovevano essere sentiti dagli assistenti sociali e dagli operatori dei centri per l’impiego per verificarne l’appropriatezza a seconda delle attività con qualche contenuto specifico (pulizie dei parchi o aree gioco, compagnia e supporto di anziani, impegno in attività ludiche, ecc.).
Da quando il RdC è a regime questa opportunità è stata largamente sottoutilizzata perché nella pratica essa comporta, per i Comuni che ne sono i responsabili, un onere in termini di ideazione, prima, e di realizzazione, dopo. Da marzo 2019 a ottobre 2021 sono stati circa 12.000 i PUC predisposti con un totale di 95.000 posti, ma solo il 39% dei Comuni ha preparato almeno un PUC.
Se si aggiunge a questa scarso interesse e sensibilità la lunghezza dei tempi che, per varie ragioni, gli operatori dei servizi (sociali e CpI) impiegano per selezionare e assegnare le persone ai progetti, il risultato è che solo il 32% dei posti disponibili nei PUC è stato occupato.
Le proposte
Allora la scelta è chiara: così com’è congegnato, il provvedimento va semplicemente abolito ma per sostituirlo con due distinte misure.
La prima per l’inclusione sociale ed il contrasto alla povertà attraverso meccanismi che, ferma restando la competenza statale a fissare i criteri per l’accesso ai benefici economici e le procedure di controllo, mettano al centro – in attuazione dl principio costituzionale di sussidiarietà – le organizzazioni della società civile, sollecitate e sostenute, per redigere e presentare in autonomia progetti per l’inclusione sociale, ripercorrendo la strada del Servizio civile universale, e obblighino i non occupabili, nei limiti della loro autonomia, a partecipare alle attività del progetto, con adeguate e misurate penalizzazioni.
La seconda per il lavoro, per gli occupabili: è vero quel che sostiene il professor Ichino che esistono enormi giacimenti occupazionali che restano inutilizzati per difetto dei percorsi di formazione o addestramento necessari, ma i percettori di reddito di cittadinanza solo in parte possono contribuire a colmare questo deficit sia per il deficit di competenze, difficilmente colmabile con la formazione professionale, sia per il mismatch territoriale, che complica l’incontro tra domanda ed offerta.
Servono corsi mirati di formazione e addestramento legati al territorio e serve l’obbligo per il percettore di RdC di parteciparvi, con la prospettiva di occupare, al termine, il posto scoperto. E tutto questo attraverso un più ampio coinvolgimento delle Agenzie private per il lavoro che hanno mostrato in questi anni di funzionare e funzionare bene. Altrimenti cessa il sostegno del reddito.
Ma va riformata la formazione professionale attraverso la misurazione della sua efficacia per i partecipanti, modificando pratiche che ne vanno spesso strumento di clientelismo, di finanziamento indiretto per le organizzazioni che le patrocinano e di utilità prevalente per i formatori. In fondo, servirebbe quello che è previsto dal Jobs Act: istituire un’anagrafe della formazione professionale e incrociarne i dati con quelli delle comunicazioni obbligatorie al ministero del Lavoro sulle assunzioni, degli albi professionali, delle liste di disoccupazione per conoscere il tasso di coerenza tra la formazione impartita e gli esiti occupazionali effettivi, che è l’indice migliore della qualità del servizio. In caso di conclamata inutilità rispetto allo scopo, va tolto il sostegno pubblico alla loro attività
Ovviamente, serve anche un progressivo percorso di riduzione del sussidio che stimoli alla ricerca di occupazione, anche per non innescare pericolosi meccanismi di “in- work benefit”, cioè di sussidio che integra la retribuzione di mercato per portarla a livelli più accettabili, diventando in questo modo causa di bassi salari perché rende possibile e conveniente per le imprese ridurre le retribuzioni senza che diminuisca, grazie al sussidio, il reddito complessivo percepito dai lavoratori, in una dannosa convergenza di interessi.
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