«La Francia accelera sull’economia di guerra ed è pronta a requisire gli impianti industriali.» RID online, 26 marzo 2024.
«Francia, al via il sottomarino strategico di 3a generazione.» RID online, 26 marzo 2024.
La Francia dunque, come da tradizione, assume il ruolo di avanguardia di un’Europa ormai da 80 anni sonnolenta riguardo alle grandi questioni geopolitiche e quindi militari sul tappeto. Lo ha dimostrato in numerose occasioni, le cui due più recenti sono il programma Scaf/Fcas franco-germanico-spagnolo per un velivolo da combattimento di 6a generazione, teniamo presente che il Lockeed Martin F-35 che sta entrando in servizio oggi è di 5a, e il programma Mgcs franco-tedesco, per la realizzazione di un carro armato di nuova concezione: un Main Ground Combat System, giusto per sciogliere l’acronimo. In entrambi, la Francia pretendeva la direzione tecnologico-strategica, ma ha dovuto ridurre le ambizioni vista la ben minore taglia economico-finanziaria rispetto alla Germania.
Solo la Francia? No, perché i grandi rivali europei di Parigi restano in realtà i Britannici con il loro Tempest, altro sistema aereo di 6a generazione, questa volta anglo-italo-giapponese con gli svedesi prima dentro, adesso fuori e contesi da entrambi i consorzi. La Svezia, vale la pena ricordare, unico paese europeo, assieme alla Francia, ad aver sviluppato e portato da sola a maturità operativa un aereo da combattimento definito di 4a generazione e “mezza”: il Gripen per gli scandinavi, il Rafale per i cugini d’oltralpe. Il Typhoon anglo-italo-germano-spagnolo appartiene alla stessa categoria, ma si tratta appunto di un progetto quadrinazionale.
La Gran Bretagna condivide con i transalpini il rango di potenza nucleare dichiarata e la disponibilità di una, per altro poco numerosa, flottiglia di SSBN, sottomarini lanciamissili balistici, e la capacità di progettarli e costruirli. Anche se il missile Trident imbarcato sui battelli della Royal Navy sembra ancora distante dall’operatività, invece garantita dagli M51 francesi. Specie nella nuova variante M51.2. Parliamo di missili che viaggiano a Mach 25, quindi larghissimamente ipersonici, visto che si tratta dell’ultimo grido in materia.
Il resto dell’Europa? Non c’è dubbio che Francia e Gran Bretagna siano un gradino avanti a tutti. Anche perché nei decenni non hanno mai abbandonato una postura sostanzialmente “imperiale” e meno che meno hanno esitato nell’uso della forza quando ritenuto necessario o anche soltanto utile all’interesse nazionale. Il risultato è uno strumento militare a cui sono state dedicate cifre ben maggiori che negli altri paesi del Vecchio Continente e, soprattutto, testato e oliato sui campi di battaglia di tutto il Mondo. Senza il timor panico, caratteristico di Roma e Berlino ma anche di Madrid e altri, di consumare mezzi costosi e vedersi ammazzare qualche soldato ovvero d’infliggere alle aree di combattimento i famigerati “danni collaterali”. Cose, in guerra, inevitabili.
Abbiamo già qui alcuni punti che spiegano perché l’Europa non possieda una politica estera comune e, di conseguenza, non disponga di una propria difesa integrata. Uso la parola “difesa” con qualche difficoltà, preferirei il termine Forze Armate: credo infatti che sia indispensabile tanto per cominciare piantarla con l’ipocrisia. L’uso della forza, militare e non, diventa inevitabile e indispensabile quando la minaccia anche solo rischi di concretizzarsi in una qualche forma di aggressione. La quale non è affatto detto sia esclusivamente o in maniera prevalente militare: come dobbiamo considerare un attacco cyber contro i tuoi sistemi di comunicazione, sanitari, finanziari, etc.? O la manipolazione dei mercati delle materie prime? Oppure la conquista del monopolio di alcune produzioni essenziali alla vita contemporanea, quali semiconduttori, pannelli fotovoltaici, batterie al litio e via dicendo?
Molte sono le modalità di aggressione e multidominio per di più: interessano cioè lo spazio terrestre, marittimo, aereo, spaziale, cyber, intelligence e, ultimo arrivato solo per chi maneggi poco la storia, cognitivo. Le risposte devono essere di pari livello e sofisticazione. Renderle efficace è indispensabile, perché solo degli eremiti alla ricerca della fusione con l’Anima Universale possono non rendersi conto che l’obiettivo rimane sempre lo stesso:
«Che importanza ha questo o quel motivo? Ciò che vogliamo è una maggiore porzione del traffico commerciale che ora hanno.»
Parole di George Monck, duca di Albermale e ammiraglio inglese in riferimento agli Olandesi alla vigilia della Seconda Guerra anglo-olandese, per altro iniziata ben prima di essere dichiarata. Ora trasferibili pari-pari sulla bocca di Vladimir Putin, Xi Jinping, Narendra Modi, Lula da Silva con l’aggiunta di Cyril Ramaphosa, Kim Jong-un, Alì Khamenei e via dicendo, cioè i famosi Brics allargati.
Non importano i pretesti portati a sostegno della propria aggressività, l’obbiettivo è uno solo: abbattere l’Impero dell’Occidente e sostituirsi a esso. Credere che ciò avverrà per dare vita a un ordine mondiale migliore e più giusto per tutti, mi sembra poco aderente alla personalità di questi signori e, in generale, alla Storia del Pianeta. Lo scopo vero è togliere per prendere, a proprio vantaggio e a danno degli altri. Cioè, tanto per cominciare, di noi. Che, per essere sinceri, abbiamo insegnato a chiunque come fare e quali vantaggi ne derivino. Nel breve come nel lungo periodo. È quindi una lotta per la supremazia che riguarda la semplice sopravvivenza. Vogliamo abbandonare la partita senza neppure giocarla? Le conseguenze finali di tale scelta le abbiamo intessute alla Storia: quando un Impero cade, segue sempre un Medioevo.
Maggiore tutela dell’Impero, e primi beneficiari ovviamente, sono stati sino a oggi gli Usa. Oggi, però, la Superpotenza è prima di tutto in crisi identitaria ed è segnata da radicali faglie interne che ne minano la forza. Che succederà se dovesse prevalere il neo-isolazionista Trump? Tentazione ricorrente nella storia di questo paese: ricordiamoci che l’aggressività nippo-nazi-fascista venne enormemente aiutata dal ripiegamento interno e dalle lotte intestine americane tra le due guerre mondiali. Singolare similitudine con il presente. Allora, il campo di battaglia diventò l’Europa. Cioè quanto sta già accadendo dal 2014, da quando cioè Vladimir Putin ha deciso di riprendersi quanto perduto con il crollo dell’Urss e ha cominciato a tessere la trama del nuovo Asse del XXI secolo: Mosca-Pechino.
Cambiano i nomi, anche i protagonisti fisici, ma la geopolitica impone sempre le sue regole. Giusto per ricordare un altro pezzo della nostra storia, rimeditiamo le parole che l’ateniese Tucidide mette in bocca al siracusano Ermocrate alla vigilia dell’attacco dei suoi concittadini alla città siceliota:
«Io non biasimo chi vuole conquistare un impero, ma chi è troppo disposto a sottomettersi, perché gli uomini sempre per natura comandano su chi cede, si difendono da chi li attacca.»
Cosa vogliamo fare? L’Europa ha tre problemi di fondo: non riesce a percepirsi come tale, quindi le manca la capacità di capire che i problemi geopolitici di Parigi sono in realtà gli stessi di Berlino ma anche di Londra, Roma, Madrid, Varsavia etc. ; fatica a realizzare che le dimensioni dello scontro impongono una stazza che nessuno stato europeo da solo possiede; e continua a vivere con un ingiustificato senso di colpa rispetto al proprio passato. Tutto questo le impedisce di costruire l’ideologia di base necessaria a qualunque costruzione politica e la imprigiona nelle trame della cosiddetta cancel culture e della woke ideology, particolarmente vive entrambe negli Usa ovvero di un iper-nazionalismo sovranista del tutto inadeguato. Come è stato ben detto, invece:
«Il mito è fondamento della potenza. Serbatoio di possibilità per ogni attore che si voglia pienamente storico. I momenti in cui una comunità si ripiega su sé stessa, scavando nel suo passato alla ricerca di un mitologema, sono geo-politicamente decisivi: è grazie a questo scavo archeologico, infatti, che le grandi potenze riportano alla luce un credo, una certa idea di sé che, in larga parte, determina il loro modo di porsi di fronte al mondo e alla storia. Allo stesso modo, la messa in discussione di un mito, specie se fondativo, significa che una comunità, nelle profondità della sua psicologia collettiva, sta rivalutando le sue priorità[1]».
Come dimostra la Russia del Russkiy Mir, che ha preceduto lo scatenarsi del revanscismo di Mosca, o la Cina del Sogno Cinese di Xi Jinping. Evidenti le analogie con l’American Dream e il predominio Usa nel Novecento. E l’Europa? Non accetta l’idea che prima di ogni scelta politica, ci sia una cultura di fondo capace di fascinazione identitaria e di fornire gli strumenti per la costruzione che si ha in mente. C’è bisogno, dunque, di un European Dream capace di fornire in via preliminare il propellente necessario a implementare qualunque progetto politico. Aspetto urgente, perché il contesto in cui ci si trova è quanto mai deteriorato. Siamo in presenza di un’aggressione generalizzata, infatti, che coinvolge ogni quadrante del Pianeta con l’obbiettivo concentrico di spazzare via l’Impero dell’Occidente. Il suo guardiano principale, gli Usa, non sono più in grado di svolgere questa missione. L’Europa, quindi, deve rispolverare il sogno di Jean Monnet e Robert Schuman, così ben compreso da Alcide De Gasperi: la CED, Comunità Europea di Difesa, che doveva nascere nel 1952, quindi subito dopo la CECA e prima ancora di CEE ed Euratom. Perché gli statisti di allora avevano già compreso quello che oggi è diventata emergenza: il benessere deriva dalla potenza e questa dipende dalla massa critica, economica e militare, che si riesce a esprimere.
Una nuova CED si sta faticosamente delineando, attraverso l’utilizzo mirato dei fondi della BEI, la Banca Europea per gli Investimenti, e le prime forme di acquisto coordinato di materiale militare. Vanno nella stessa direzione i progetti transfrontalieri cui si è accennato all’inizio. Tutto, però, sarà sempre in ritardo e troppo lento di fronte all’aggressività della minaccia se continuerà a mancare un vero governo dell’Europa: oggi più che mai la direzione da prendere è quella degli Stati Uniti d’Europa, con diverse competenze federali, a cominciare dalla politica estera e le Forze Armate. Difficile? A guardare bene, moneta unica e Banca Centrale Europea funzionano già così. L’hanno dimostrato in particolare in mano a menti capaci e determinate, come quella di Mario Draghi. Non si può pensare, però, che i banchieri suppliscano alla politica. Neppure che lo facciano i militari. Gli uni e gli altri devono invece seguire la politica. Questo il nocciolo della democrazia. Quindi?
Adesso ci sono le elezioni per il Parlamento Europeo. È necessario che questo non diventi il parcheggio di lusso per pochi, ma il vero motore degli Stati Uniti d’Europa. Con una Commissione che non sia più il prodotto di strane alchimie, ma un vero e proprio governo. Il primo passo è togliere il requisito dell’unanimità ale decisioni. Il secondo di dare un peso proporzionale a quello della popolazione residente. Cipro non può contare come la Germania, in conclusione. E un veto ungherese non deve poter bloccare tutto. Neanche uno italiano, è chiaro, o francese o tedesco. A ruota, la formazione di Forze Armate federali europee.
Abbiamo una bandiera e un inno, per altro ancora senza parole, partiamo da queste ultime per costruire l’European Dream. Trasferiamo sovranità dagli stati membri alla Federazione. Diamole il potere di agire e d’intervenire. Presto non saranno più solo i droni degli Huthi a minacciare le nostre rotte: attenzione, il nemico è alle porte. Bisogna muoversi. Altrimenti saranno rovine e miseria. Abbiamo già dato, mi pare.
[1] Giuseppe DE RUVO, «Niente innocenza, niente impero», Limes, 11-2022, p. 214.
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