L’agricoltura è stata fortemente influenzata dalla politica agricola comune (PAC) fin dai primi vagiti della Comunità Europea, poi diventata Unione Europea. Fin dagli anni ’60 del secolo scorso ci sono stati forti impatti sia delle politiche di mercato, con il ritiro dei prodotti eccedentari, sia con le misure strutturali. Buona parte delle serre del pesciatino ma anche di Pistoia, furono realizzate con i primi programmi strutturali del FEOGA (Fondo Europeo Orientamento e Garanzia in Agricoltura).
Oggi l’impatto è ancora maggiore, in quanto ormai non c’è attività del settore agricolo che non abbia un riferimento normativo di carattere Europeo sia che si tratti di finanziamenti che di norme regolamentari. Il problema sia nell’uno che nell’altro caso è che le norme sono ispirate ad una omogenea tipologia di agricoltura e di territorio (sicuramente prevalente ma non esclusiva) e male si adattano ad agricolture e territori complessi come la maggior parte di quelli italiani, ma potremmo dire di tutta l’area mediterranea.
La PAC era nata per superare le disparità socio-economiche territoriali e settoriali utilizzando meccanismi complicati per l’erogazione dei contributi che poi si traducevano in una erogazione massiva in base alle dimensioni aziendali. Per essere chiari e farci comprendere voglio fare quest’esempio legato alla olivicoltura. Io posseggo due ettari di oliveto in collina dove occorre fare quasi tutto manualmente e l’Unione Europea mi concede un contributo di circa 300 euro ad ettaro (quindi 600 euro complessivi, di cui un centinaio sono necessari per fare la domanda e quindi rimangono circa 500 euro). Lo stesso contributo ad ettaro viene concesso ad un ipotetico olivicoltore di pianura che, magari, dispone di cento ettari. Credo sia evidente che l’impatto del contributo pubblico non è lo stesso. A ciò dobbiamo aggiungere che l’olivicoltura delle mie colline contribuisce a mantenere le caratteristiche del paesaggio e la mia attività a salvaguardare l’equilibrio idrogeologico: ma di tutto questo la PAC non si preoccupa e nello stesso tempo impone delle teoriche fasce tampone, non coltivate, in aree ad agricoltura fortemente industrializzata come la pianura padana e le pianure del centro Europa che è stato uno dei motivi che hanno scatenato le cosiddette “proteste dei trattori”.
Quindi perché la PAC non ha prodotto in oltre 50 anni gli effetti desiderati ma anzi, ha approfondito il divario fra agricolture forti e quelle più deboli, fra territori senza limitazioni e territori marginali? Perché è stata concepita a senso unico, senza una reale programmazione nei e con i territori, per la verità con importanti responsabilità nazionali e regionali. Senza essere articolata e differenziata nelle diverse regioni. Non possiamo certamente pensare che l’olivicoltura di collina possa commercialmente competitiva con l’olivicoltura-prato presente in crescenti aree di pianura in Spagna ma anche in Italia, basta fare un giro a Massaciuccoli e si vedrà l’olivicoltura di collina abbandonata ed il proliferare di oliveti specializzati nelle zone di bonifica che farebbero rabbrividire i padri dell’olivicoltura di qualità. Quindi se vogliamo mantenere l’olivicoltura e l’insieme dell’agricoltura in tutti i territori occorre che la PAC (leggasi Unione Europea) conosca le diversità fra gli stessi ed applichi gli strumenti finanziari e regolamentari in modo più aderente alle necessità dei diversi territori.
L’attuale PAC nasce in un periodo diverso a quello in cui viene ad attuarsi, che è caratterizzato da un alto tasso d’inflazione, dal rialzo dei tassi di sconto e dalla perdita del potere di acquisto delle famiglie medie italiane. Tutti elementi che incidono sui consumi e di conseguenza sulle vendite delle aziende agricole, causando una generale crisi delle stesse. Inoltre i continui eventi meteorici estremi hanno reso evidente a tutti il cambiamento climatico, alimentando la sensibilità dei cittadini europei verso i temi ambientali.
La PAC ha fatto propri in linea generale e troppo generica i principi e gli obiettivi della Strategia Farm to Fork e della Strategia sulla Biodiversità, entrambe generate dal Green Deal, prevedendo un cambio di paradigma, rafforzando la condizionalità e introducendo gli eco schemi. Si chiede di fatto agli agricoltori ed agli allevatori un ulteriore passo in avanti nel rispetto dell’ambiente, delle acque, degli agro-ecosistemi, degli animali, del clima e del cibo, declinando una serie di parametri di carattere fisico sostanzialmente analoghi in tutta l’Unione Europea.
Il Green Deal non può essere solo una serie di indicatori fisici ma deve essere uno strumento capace di valorizzare le esternalità prodotte dalla olivicoltura nelle colline centro meridionali italiane, le produzioni cerealicolo-foraggere e la zootecnia delle aree marginali, la viticoltura cosiddetta eroica. Valorizzare le esternalità vuol dire dare un valore, che difficilmente il mercato pagherà, a tutti quei servizi che un agricoltura qualitativamente produttiva eroga in queste aree. Vuol dire compensare realmente le differenze tecnico-agronomiche e conseguentemente i livelli produttivi che si possono raggiungere nelle aree più difficili rispetto alle fertili pianure. Nelle fertili pianure la PAC deve incentivare la diversificazione produttiva, valorizzare le rotazioni colturali per la rigenerazione dei suoli e la conservazione della sostanza organica. E’ questa l’essenza del Green Deal che per essere attuato, cercando di essere economicamente efficienti, non può non precedere un organizzazione delle produzioni a livello comprensoriale con specializzazioni all’interno delle aziende e con una zootecnia di territorio e non più solo aziendale. E’ questa l’unica strada per cercare di mantenere insieme la conservazione della fertilità del suolo, le produzioni agro zootecniche e l’ambiente. E’ una pura illusione pensare che il futuro della PAC sia nel solo aggiustamento di qualche misura e nel ritoccare in senso meno ambientalista alcune misure di carattere ecologico, legate alla “condizionalità rafforzata”. La PAC deve essere lo strumento con cui si riporta a livello di territorio, l’economia circolare che era l’essenza del podere e della fattoria toscana. Non possiamo pensare di contrastare il cambiamento climatico se non cambiamo alcuni paradigmi fondanti dell’agricoltura industrializzata, ovvero lo spostamento per esempio di risorse foraggere a chilometri di distanza da dove vengono prodotte, per nutrire animali allevati in stalle di grandi dimensioni che a loro volta producono letame e liquami di difficile utilizzazione in loco. Questo di fatto impoverisce le aree di produzione del foraggio e probabilmente causa problemi ambientali a quelle circostanti le stalle. Sono questi i temi che occorre affrontare con il nuovo periodo di programmazione comunitaria. Una programmazione che deve essere reale ed aggiungo con un attenta pianificazione territoriale questa si improntata al ripristino della natura come la legge recentemente approvata dal Parlamento Europeo vuole.
Per fare tutto questo è indubbio che occorre un sistema pubblico all’altezza della sfida, tecnicamente preparato e capace di interloquire con le imprese e gli imprenditori in maniera trasparente e magari con minori barriere informatiche ma non senza informatica!
E’ questa una sfida decisiva insita nella nuova PAC, legata al salto di qualità della pubblica amministrazione in termini di capacità operative, approccio e metodo di lavoro. Il passaggio dalla conformità delle attività, alle prestazioni delle stesse e quindi dal rispetto rigoroso delle regole e procedure fissate a Bruxelles, verso un intervento strategico delle autorità nazionali e regionali nella fase di impostazione e di attuazione degli interventi, esige una risposta coerente da parte delle istituzioni centrali e territoriali. Queste dovranno acquisire nuove capacità e competenze modificando il consolidato modello di lavoro che si è affermato da almeno tre decenni a questa parte.
La PAC 2023/2027 è un insieme di regole in materia ambientale, climatica e di salute e benessere delle piante e degli animali che gli agricoltori sono tenuti ad accettare per accedere al sostegno pubblico. Tale componente della PAC è ormai universalmente conosciuta con il termine “condizionalità” che dal 2023 è diventata più severa e rigorosa e quindi cambia nome in “condizionalità rafforzata”, in ossequio alla più radicata sensibilità ambientale che pervade l’Unione Europea, spalmata su tutto il territorio senza sforzi di specificazione.
L’asse portante è sempre il regime dei pagamenti diretti, che assorbe poco meno del 60% della spesa pubblica della PAC, rimane una modalità disequilibrata rispetto ai reali fabbisogni specie dell’agricoltura italiana marginale ma determinante per la vita di vaste aree del paese. Tutto ciò nonostante l’intervento riformatore abbia impresso due nuove tendenze, di cui una orientata verso la sostenibilità, con l’introduzione del cosiddetto regime ecologico e l’altra rivolta verso il principio dell’equità nell’utilizzo delle risorse finanziarie di cui per ora non si vedono effetti.
Vi è poi un pacchetto di interventi settoriali che vede la conferma dell’approccio tradizionale, per produzioni quali l’ortofrutta, il vino, l’olio d’oliva e le olive da tavola e, infine, l’apicoltura, cui si aggiunge una spruzzatina di novità, con la possibilità concessa agli Stati membri di attivare interventi settoriali per produzioni diverse da quelle menzionate. Per finanziare i nuovi interventi settoriali, lo Stato membro può utilizzare fino al 5% della dotazione annuale per i pagamenti diretti. Per l’Italia ciò implica un gettito massimo di 180 milioni di euro per anno.
Infine, c’è la politica di sviluppo rurale che presenta, in questo ciclo di programmazione, la sostanziale novità di prevedere solo otto interventi generali, i quali sostituiscono la moltitudine delle misure e delle sotto misure della precedente programmazione. In aggiunta, vi è la novità del contenimento al minimo delle regole stabilite a livello europeo. Infatti, la devoluzione delle competenze, comporta l’affidamento alle autorità nazionali di decisioni su aspetti fino ad oggi formulate nei regolamenti europei, come ad esempio i beneficiari, la tipologia di spese ammissibili, l’impostazione degli interventi, l’allocazione delle risorse finanziarie, la definizione dei requisiti e delle condizioni di accesso ai contributi pubblici, la calibrazione degli interventi in funzione dei fabbisogni del territorio. Ritengo che il caso della nuova politica di sviluppo rurale rappresenti il paradigma di riferimento che dimostra in modo inequivocabile il passaggio dalla conformità al risultato. Nel concreto, le istituzioni nazionali hanno la possibilità, con il nuovo ciclo di programmazione della PAC, di concentrare le risorse su specifici settori produttivi e su determinati territori. Inoltre, possono scegliere con ampia autonomia gli interventi da attivare, fatto salvo l’obbligo di inserire nel programma quelli di natura ambientale. Possono, infine, orientare gli interventi e le risorse solo verso determinati beneficiari e specifici approcci produttivi; oppure scegliere opzioni a geometria variabile, con l’esclusione di certi settori o determinate categorie di beneficiari in funzione del contesto considerato.
Dall’esame dei documenti e delle azioni intraprese risulta però evidente che le potenzialità in termini di nuovo approccio alla programmazione e di ampia discrezionalità decisionale, non siano state adeguatamente utilizzate in Italia e alla fine siamo tornati a percorrere le esperienze del passato, con la classica divisione delle competenze tra Ministero da una parte e Regioni e Province autonome dall’altra.
L’altro elemento fondamentale per l’attuazione coerente ed a misura di territorio della PAC sono gli imprenditori e le imprese ma a prescindere dalle dimensioni. Occorrono infatti degli imprenditori agricoli veri, che non aspettino il finanziamento pubblico per decidere quali investimenti fare, ma invece che siano in grado di programmare ed adeguare la propria attività in funzione dei cambiamenti che con una maggiore capacità associativa li metta in grado di condizionarli e non solo di subirli. Sia nei confronti del consumatore finale che della grande distribuzione più o meno organizzata.
La risposta, d’altra parte, alla crisi attuale sia produttiva che dei consumi non può essere nella contrapposizione fra agricoltura convenzionale e biologica nelle varie declinazioni. Ma invece in un agricoltura consapevole dei limiti che la specializzazione estrema comporta, un agricoltura che possa fare ricorso a tutti i mezzi tecnici che si possono utilizzare con il supporto di tecnici che non debbono fare solo le pratiche per i contributi ma invece essere il motore delle tecniche innovative di agricoltura sostenibile.
Solo una politica agricola comune che tenga conto delle differenze agronomiche e territoriali può dare vera attuazione al Green Deal, senza contrapposizioni fra posizioni ambientaliste e produttivistiche ma con azioni reali di rigenerazione della fertilità dei suoli, di riduzione degli imput esterni al processo produttivo in una reale economia agricola circolare.
Renato Ferretti (Dottore Agronomo – Vice Presidente del CONAF)
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