Parlare di federalismo potrebbe, in Francia, essere giudicata quasi come una provocazione intellettuale o una cecità ideologica che ignora il principio di realtà. Non solo il federalismo non è mai stato ben accolto e percepito dalle classi dirigenti, dai media, dalle élite legali, politiche o accademiche, ma al momento non ci sono molte persone pronte a scommettere anche una somma modesta sul futuro del federalismo europeo che sarebbe solo un reperto storico da collocare in soffitta dove si mettono le cose inutili o sorpassate.
Ci vuole quindi un certo coraggio per raccogliere la sfida di un’analisi che non si presenta come un’apologia incondizionata e senza sfumature a favore del federalismo, ma come un’analisi lucida di ciò che ha rappresentato e rappresenta ancora nella storia delle idee contemporanee e nel diritto della costruzione europea il contributo del pensiero federalista.
Che i federalisti siano stati profondamente influenti nell’ispirazione per la costruzione europea e la sua “fabbricazione” in termini giuridici è indiscutibile. Altiero Spinelli, per citare un solo nome tra i “Padri fondatori”, ha lasciato un segno profondo, dal Manifesto di Ventotene al progetto di trattato elaborato nei primi anni ’80, alla fine respinto ma parzialmente ripreso, senza dichiararlo esplicitamente ed in forma attenuata, nei trattati successivi. E che dire dell’impronta ancora più duratura di un giudice come Pescatore che, all’alba dello sviluppo della Comunità economica europea, ha contribuito a mettere in atto principi vincolanti come quello della supremazia del diritto europeo o effetto diretto, principi necessari per il funzionamento della Comunità e allo stesso tempo le basi di una costruzione federalista che non può e non si dichiarerà tale. Queste mani multiple, non così invisibili, ottennero ciò che Mauro Cappelletti, Monica Seccombe e Joseph Weiler avevano nel loro lavoro collettivo chiamato “Integrazione attraverso la legge”.
Che l’Europa sia stata “federata” ad insaputa dei popoli europei, e perfino delle élite, attraverso il processo che gli inglesi hanno denunciato come “un’integrazione invisibile” è innegabile e non solo grazie a un complotto di federalisti mimetizzati nelle istituzioni europee, ma semplicemente in conseguenza dell’applicazione di principi ben noti che agiscono nelle organizzazioni: quello dei “poteri impliciti” e delle conseguenze necessarie dalle regole originali (senza il primato della prevalenza del diritto europeo la Comunità economica europea non sarebbe stata altro che un’altra organizzazione internazionale inefficace); quello secondo il quale ogni organizzazione cerca di spingersi ai limiti massimi dei suoi poteri. Inoltre, per lungo tempo, queste inevitabili evoluzioni sono state quasi invisibili e talvolta imprevedibili nelle loro conseguenze.
La politica si muove nel breve periodo e produce leggi il cui impatto si sviluppa nel lungo termine e attraverso un’interpretazione che sfugge ampiamente ai suoi creatori. Gli unici ad aver compreso questi meccanismi e queste inevitabili sequenze di ingranaggi sono stati fin dall’inizio gli inglesi che hanno cercato costantemente di premunirsi dai pericoli (tracciando linee rosse), per attuare azioni di “contenimento” (come allargamento sotto lo slogan “più ampio è più saggio”), per liberarsi di regole “federali” reali o potenziali attuando una politica di “opting out” e infine di mollare gli ormeggi andandosene a giugno 2016 (Brexit).
Tutti gli altri governi hanno accettato gli slittamenti federalisti, raramente per convinzione (con la eccezione di Belgio, Lussemburgo, Italia), spesso per opportunità d breve respiro, a volte per ignoranza delle conseguenze implicite ma necessarie del trattato o della disciplina legislativa adottata. La soluzione federale non è mai stata una scelta esplicita da parte della maggioranza degli Stati membri che hanno preferito stendere un velo di ignoranza sullo sviluppo della costruzione europea. La speranza era che prevalesse il fatto compiuto, soprattutto perché non era previsto fino al Trattato di Lisbona un meccanismo di fuoriuscita. Questo atteggiamento si è esaltato in occasione dell’allargamento: i progressi in termini di integrazione erano quasi inesistenti (come evidenziato a posteriori dal Trattato di Lisbona), il “più ampio” è stato dissociato dal “più profondo” e la causa di integrazione ridotta a far ingoiare ai nuovi membri la minestra indigeribile del passato in uno spirito degno di membri di un sindacato abbarbicati ai loro “diritti acquisiti” giustamente denominati “acquis communautaires “.
I candidati furono costretti a sottomettersi ma erano determinati a difendere in futuro con le unghie e con i denti la loro sovranità appena riconquistata dopo mezzo secolo o più di dominio sovietico.
In questo disordine cinquantennale, i sostenitori più determinati del federalismo non erano più illuminati dei sovranisti, anche se il più delle volte non erano al governo ma erano presenti negli ambienti accademici, intellettuali e dei media, specialmente in paesi come Germania, Italia, Belgio o Lussemburgo. Troppo spesso erano vittime del loro idealismo e troppo indifferenti al principio di realtà. Essere a favore dell’ampliamento, posizione più che legittima, ma non vedere che il passaggio da quindici a ventotto o più ha necessariamente conseguenze serie sia giuridiche che politiche e istituzionali è cecità o ingenuità. Personalmente, non riesco ancora a capire come conciliare la rivendicazione di un federalismo che sia reale, dichiarato e sostanziale con la richiesta di un allargamento senza fine esteso a tutti i paesi europei fino ai Balcani, Ucraina, Turchia ecc. senza contare Armenia o Georgia. Questa visione, perfettamente logica e realistica in un’Europa concepita come mercato, diventa una versione contemporanea di Alice nel Paese delle Meraviglie quando combina l’estensione pan-europea e all’aspirazione all’integrazione federale.
Come che sia, l’ora della verità è arrivata perché le contraddizioni latenti tra un federalismo che non dice il suo nome e le pulsioni nazionaliste e sovraniste sempre più forti che si esprimono ovunque si fanno incessantemente più acute. Tutti sono costretti a notare che in assenza di un vero sistema federale che si dichiari tale creando istituzioni in grado di collegare e integrare l’insieme dei paesi, il grande scollamento tra politiche pubbliche di natura federale o quasi federale e sistemi politici democratici nazionali è diventata inaccettabile e insopportabile. Proseguire in questo modo porta a ratificare un doppio fallimento: quello del sistema europeo incartato nelle sue finzioni, quello dei sistemi democratici nazionali che stanno diventando dei teatri d’ombre sempre meno credibili agli occhi dei cittadini. È in gioco l’idea stessa di democrazia.
Ad essere sinceri, siamo in un vicolo cieco e non esiste una buona soluzione per uscirne. La prima è drammatica e significherebbe lo smantellamento di settant’anni di cooperazione, pace e integrazione in Europa. La Gran Bretagna ha dato il segnale per la prima opzione, l’uscita che suscita timori per il ritorno di un ruolo di arbitro tra i “grandi” poteri continentali. La questione tedesca è tornata come son tornati l’incertezza ed i tentennamenti francesi. Questa evoluzione che sarebbe stata inconcepibile un quarto di secolo fa ci riporta alla memoria e ci richiama al peso della storia nei tempi lunghi.
L’altra opzione, l’unica in grado logicamente e razionalmente (e non emotivamente) di conciliare costruzione europea e democrazie nazionali rimane, comunque la si pensi, una costruzione federale che consenta un reale governo democratico delle questioni nazionali ed europee. Ma non è prova di eccessivo pessimismo sottolineare che le condizioni per il passaggio a questo aumento di potere non sono soddisfatte.
Non si trova quasi nessun politico in Europa (a meno che non sia in opposizione ed ancora …) che sostenga un progetto federale europeo. E anche coloro che hanno simpatie intellettuali o affettive per il progetto non possono ammetterlo se non al prezzo di accettare la fine della loro carriera politica. I popoli d’Europa non ne vogliono sapere perché, sebbene abbiano indubbiamente beneficiato considerevolmente dei vantaggi dell’integrazione, non accettano più le conseguenze a lungo nascoste dell’europeizzazione, respinte con lo stesso stigma della globalizzazione. Niente di nuovo sotto il sole, Machiavelli aveva già compreso ed esposto le motivazioni profonde dell’opposizione alle riforme del Principe: il popolo percepisce poco o per niente i benefici del cambiamento mentre ne valuta appieno i costi.
Perché un vero federalismo presuppone la solidarietà perché il patto sia accettato ma questa solidarietà nella realtà funziona solo all’interno di un corpo che si senta già come tale. Questa solidarietà, facile a livello di famiglia o di un piccolo gruppo, più difficile a livello nazionale, è embrionale a livello sovranazionale e si esprime solo eccezionalmente, spesso sotto il colpo di emozioni collettive alimentate dai media. Ad oggi questa solidarietà non esiste in Europa. Addirittura, in occasione del salvataggio delle banche, perché passasse, è stato vietato parlare di solidarietà ma di self interest ben compreso. Meglio spendere per distribuire salvagenti individuali che affondare tutti insieme….
A parte questa fredda “razionale solidarietà”, il sistema europeo è l’unico sistema politico sviluppato al mondo in cui i decisori (generalmente collettivi e anonimi) sono esenti da responsabilità per le conseguenze delle loro azioni e dove le politiche di ridistribuzione non compensano gli effetti discriminanti delle decisioni. Solo un vero federalismo costruito e dichiarato ne consentirebbe la correzione. Il futuro appare desolante, allora. Anche se lo scenario-catastrofe non si materializza (una exit-implosione), nel breve o medio termine non c’è alcuna possibilità di mettere in piedi una vera federalizzazione del sistema europeo. Siamo condannati, probabilmente per anni o decenni, alla mera sopravvivenza, al bricolage istituzionale e politico, all’insidiosa erosione dei sistemi democratici collocati al centro delle strutture dello stato nazionale, cresciuti a partire dal Trattato di Vestfalia.
Il federalismo europeo è ricco di potenzialità, carico di tensioni secolari ma abbastanza elastico e flessibile da offrire soluzioni alle sfide inestricabili della costruzione europea. Tuttavia, bisogna esserne consapevoli, è grande il rischio che tale evoluzione possa realizzarsi soltanto sotto la pressione di una minaccia seria e diretta.
Per quanto ne so, la gran parte degli stati federali sono nati nel dolore ….
Yves Meny
Ha insegnato Scienze Politiche a SciencesPo di Parigi e in diverse università francesi, europee e americane. Ha creato e diretto il Robert Schuman Center presso l’Istituto universitario europeo di Firenze, di cui è stato Presidente. È stato Presidente del cda della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa. Attualmente insegna nell’Università Luiss-Guido Carli di Roma.
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