Che il postCovid 19 possa essere un’occasione per ripensare da cima a fondo l’economia della Venezia storica soprattutto in relazione alla sua presunta monocultura turistica è qualcosa che stanno dicendo un po’ tutti, meglio ‘quasi’ tutti, anche trasversalmente alla politica. Si ha la sensazione, vaga, che ci sia un’occasione unica e insperata per resettare il sistema, anche se poi nessuno sa veramente come fare a coglierla per un cambiamento radicale, se radicale deve essere. Opinionisti e semplici cittadini si sono esercitati in idee e progetti ogni giorno sulla pagina del Gazzettino, ma la sensazione alla lettura è che si tratta di proposte, alcune molto interessanti, che non fanno sempre i conti con la realtà.
Soprattutto dal punto di vista delle risorse. E poi della realizzabilità, in una città dove ci sono molti interessi in ballo in non pochi casi contrastanti. Molti auspici, troppe buone intenzioni.
Coraggio, creatività e realismo in queste circostanze dovrebbero essere i comportamenti guida per non fare semplice accademia, unitamente a una buona dose di coraggio.
Vorrei chiarire infatti prima di tutto che la stessa frase fatta “Venezia vive solo di turismo”, come tutte le frasi fatte va maneggiata con cautela. Intanto va attribuito a tutto il territorio metropolitano: una parte non piccola dei 50.000 pendolari al giorno in entrata in città storica è, era, impegnato nel turismo e tra questi non pochi extracomunitari, tanto per dire. Inoltre va rilevato che sono qualche migliaio i posti di lavoro, e le redditività relative, in città storica, in attività non turistiche e quelli invece ci sono tutti ancora, essendo in gran parte sganciati dalle chiusure emergenziali. Lo stesso dicasi per i residenti in città storica. Tra loro ce ne sono ovviamente una parte consistente occupata, e adesso disoccupata, nel turismo, ma un certo numero, e non piccolo, che non lo è, con attività in città ma anche all’esterno.
Il quadro è quindi più complesso e articolato. E questo offre delle potenzialità solo se le si saprà cogliere. Perché si deve partire da quello che è restato e che adesso riemergerà.
Nel senso che se si vorrà prevenire il ritorno della stessa pressione turistica del passato, si potrà contare sul consenso di chi il turismo lo subiva senza averne beneficio. Consenso che da solo non basta certo.
La rendita turistica pre CV19 aveva un unico evidente beneficio, quello di una occupazione e una reddittività elevatissima che si rifletteva positivamente nell’implemento complessivo del PIL, con ricadute benefiche su molti. Anche se in modo disomogeneo e sbilanciato. E soprattutto con costi sociali e ambientali altrettanto elevati, agendo negativamente su molteplici situazioni, che per chiarezza ricordo: la pressione fisica vera e propria delle presenze nelle strade e nei mezzi di trasporto con relativo degrado ambientale e disagio sociale di residenti e pendolari; lo stravolgimento quasi totale del mercato degli affitti a sfavore dei residenti per la riconversione in strutture ricettive turistiche di varia natura facilitate dal web e, questo aspetto più grave di tutti, per i suoi riflessi sullo spopolamento; lo stravolgimento del tessuto commerciale con riflessi sfavorevoli per i residenti per la riconversione in commercio di bassissima qualità.
C’è stata di fatto una complicità inconscia da parte di chi ha amministrato la città, di tutti i colori politici, diciamo almeno (almeno) negli ultimi 15/20 anni, perché il fenomeno ha radici lontane e sarebbe riduttivo attribuirlo solo all’Amministrazione uscente. Si è scelta una politica del “laissez faire” che ha effetti letali in un settore liquido e nello stesso tempo reticolare come il turismo, soprattutto con l’esplodere dell’ampia gamma del low cost.
Oggi c’è la concreta possibilità per la politica di invertire drasticamente l’atteggiamento convertendolo in “interventismo intelligente”. Che non vuol dire dirigismo ottuso bensì metter mano a regole preventive e dosate. Vuol dire anche metter mano alla legislazione vigente, specie regionale ma non solo, perché è vero che c’è stato un colpevole “laissez faire”, ma è anche vero che è stato sempre trovato l’alibi di assenza di leggi in grado di consentire interventi, se non anche di leggi che li proibivano, come appunto quelle regionali. “Abbiamo le mani legate” era il mantra, fino a un certo punto interessato. Ecco sarà bene “slegare le mani” ai politici con una nuova legislazione.
Su che linee muoversi?
Al momento sembrano presentarsi due linee. Opposte purtroppo. Da una parte ci sono gli operatori del turismo a tutti i livelli e a parer mio la stessa attuale amministrazione comunale che premono per la ripresa forte e fosse per loro prima si ripristina il ‘tutto pieno’ precedente meglio è. Lasciando la gradualità solo all’inerzia naturale con cui il sistema si rimetterà in moto da solo, ma non certo programmandola. Lo si capisce tra le righe. Su un quotidiano il direttore dell’AVA, l’Associazione Albergatori Veneziani, fa intendere che la linea del “tutto al più presto come prima”” va fatta in nome del “Primum vivere” (parole sue); facendo capire che questi ripensamenti globali fanno parte di quel “philosophari” (parole non sue ma intuibile suo retropensiero) che son bravi tutti a fare se la crisi non morde direttamente. Dal che si capisce che la temporalità di questo ripensamento per lui non va assegnato al “deinde” ma se fosse possibile al “mai”. E parliamo di un’associazione che comunque gestisce un turismo residenziale di qualità e che ha oggettivo interesse a non ricadere nella massificazione precedente, quindi una potenziale alleata nel perseguire il ripensamento di cui sopra. L’Amministrazione comunale e il Sindaco sotto sotto sono in sintonia con il “tutto al più presto come prima”. Sia per la mentalità di imprenditore del Sindaco per cui il mercato va assecondato ed è delittuoso mettere la ‘mordacchia’ a un fenomeno che tira o meglio potrebbe tornare a tirare, sia per calcolo elettorale, visto che le elezioni sono alle porte. Dopo una crisi come questa parlare apertamente di ripensamento in una città dove il turismo era la prima industria è sicuramente impopolare.
Eppure… perfino il Sindaco sembra aver constatato che le monoculture, tutte, anche quelle degli arachidi in Senegal, del caffè in Costarica e dell’occhialeria in Cadore, sono troppo esposte a variabili planetarie non programmabili per garantire un presente e un futuro stabili.
In definitiva si intuisce che esiste un’alternativa, una seconda linea. Che purtroppo non ha la chiarezza e la semplicità della prima.
La seconda linea è perseguire una riorganizzazione generale dell’economia cittadina con una ragionata diversificazione dei settori produttivi. Una linea che a parer mio deve accompagnarsi anche a una riduzione dei numeri assoluti del turismo. Non saprei indicare fino a che numeri visto che da almeno quarant’anni si dice che a Venezia ci sono troppi turisti e lo si diceva anche quando erano un terzo degli attuali (a dimostrazione della variabilità con cui si percepiscono i fenomeni). Spannometricamente basterebbe una riduzione di un quarto degli attuali ma naturalmente sarebbe da approfondire.
Se si vuole pianificare i sistemi di una riduzione del numero possono essere molteplici, non ho competenze tecniche sufficienti per dare ricette, ma penso che debbano partire dal controllo e dalla pianificazione, senza dover arrivare a un numero chiuso draconiano, che pure in momenti di forte afflusso ci può stare. Una ragionevole e circostanziata proposta era quella http://www.pass4venice.org/ , massa appunto alcuni anni fa da alcuni studiosi veneziani, basata sulle prenotazioni, e lasciata colpevolmente nel dimenticatoio. Si può riprendere se non del tutto quantomeno l’ispirazione di fondo. Ma il problema vero veneziano non è solo la ressa esterna che è la cosa più appariscente e sicuramente scocciante per un residente. Il problema vero sono le pesanti ricadute sociali già citate in apertura. In primis la conversione in alloggiamenti turistici del patrimonio abitativo, l’aver messo a rendita decine e decine di appartamenti in proprietà facilitato dalle tecnologie informatiche che by passano qualsiasi intermediazione. Le conseguenze sull’impossibilità di trovare alloggi in affitto in compravendita a prezzi solo ragionevoli anche per un ceto medio sono facilmente intuibili. Tutto ciò adesso è andato in crisi e prima che l’andazzo gradatamente riprenda è assolutamente necessario fornire gli strumenti legislativi che per ora non ci sono alla politica e a chi governa, per porre un freno diretto e indiretto con norme in grado semplicemente di non estinguere ma di raffreddare di molto un fenomeno che lasciato a sé stesso è devastante. Dopodiché la residenzialità va favorita con altri interventi soprattutto attraverso l’ingente patrimonio pubblico ma anche in questo caso ci vuole volontà politica. Ovvio che la condizione attuale di annullamento della domanda turistica può indurre i proprietari ad una diversificazione a favore dei residenti. Può sembrare cinico ma questa è oggettivamente una opportunità. Perché in passato chiunque avesse voluto mettere seriamente mano al fenomeno avrebbe dovuto scontentare pesantemente una lobby agguerrita, scontrarsi ferocemente, scendere a compromessi, creare divisioni, perché l’inerzia tirava tutta da un’altra parte. Per questo l’emergenza crea una condizione irripetibile, fermo restando che scontenti ci saranno comunque. Va messo in conto.
La residenzialità è un bene primario, in generale in tutti i centri storici, ma in quello veneziano particolarmente sia per l’isolamento che vive rispetto alla città di terraferma, sia perché è costitutivo della tipicità veneziana come una vera da pozzo e una trifora gotica e forse più ancora. Insomma la city di Londra, vecchio cuore londinese, può permettersi 1000 (sic) residenti fissi, la old city veneziana ha bisogno di arginare il fenomeno e se possibile invertirlo o quantomeno contenerlo. Perché la residenzialità è costitutiva della città e trascina con sé altre funzioni accessorie, è rigenerante di per sé.
Posto che le residenzialità può giovarsi anche di occupazioni non necessariamente in città storica, sicuramente una diversificazione maggiore delle attività produttive sarebbe un volano anche per indurre ad una residenzialità di rientro. Per questo è necessario far leva su quelle attività non turistiche che sono rimaste, di solito direzionali, e darsi la regola che da oggi nessuna deve più attraversare il ponte. Certo che vi si può aggiungere produzioni immateriali di qualità. Per esempio con forme di collaborazione più stringenti con le Università e con i grandi centri di produzione culturale della città.
Va detto infine che una politica seria di diversificazione della produzione, da affiancare e non da sostituire al turismo, diventa pura teoria se non si accompagna ad un massiccio intervento di modernizzazione strutturale della città storica. A cominciare dalla mobilità interna e negli accessi dall’esterno. Seppure oggi le nuove tecnologie consentono meno dipendenze nei rapporti fisici delle persone è indubbio che l’ostacolo fornito dai lunghi tempi di percorrenza interni e di accesso rende scarsamente competitiva qualsiasi collocazione produttiva che voglia relazionarsi ed essere in rete con tutto il territorio. In più è necessario che punti teorici di forza come la portualità veneziana ricevano soluzioni tecniche (come lo scavo dei fondali) che ne mantengano la competitività.
Si sa che questa linea si scontra con un conservatorismo di fondo che vuole la città e la laguna intangibili. Non solo. Le stesse persone che denunciano i mali cronici veneziani sono quelle che più si oppongono a interventi strutturali. È un controsenso. Chiaro che qualsiasi intervento deve essere ecologicamente compatibile, ma ci sono buone ragioni per pensare che questa compatibilità si possa trovare. A patto di lasciare da parte i furori ideologici.
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