Sono due gli indicatori essenziali per giudicare la salute civile di un paese, il livello del cosiddetto stato di diritto: la libertà di stampa e l’indipendenza della magistratura. Ebbene: in Italia si pubblicano, indisturbati, 120 quotidiani cartacei, circa 450 on line e centinaia di periodici, ognuno con una propria linea politica e culturale. Si può dunque affermare, con totale sicurezza, che a questa larghissima varietà di punti di vista corrisponde la più ampia libertà di pensiero e di stampa.
Della magistratura spiegherò fra un attimo. Prima mi preme ricordare che quanto sopra non vale a proposito della libertà di espressione, grazie a chi vede camice nere ovunque dalle Alpi alla Sicilia. Le mode importate dagli Stati Uniti, ma identificate lì già da decenni come inaccettabile ‘cultura del piagnisteo’, hanno imposto anche in Europa le ferree regole del politicamente corretto.
Questa inesorabile gabbia comportamentale, soprattutto linguistica, è stata subito adottata da una sinistra priva di bussola, che ha fatto della sensibilità radicale la misura di tutte le cose. E siccome non c’è parola che non offenda qualcuno disposto a dichiararsene vittima, il piagnisteo detta legge e aprire bocca è ormai un esercizio a rischio. Tutto può infatti essere equivocato, quindi sputtanato e trascinato in tribunale.
L’ intollerante polizia del pensiero è al lavoro H24 al servizio del fascismo di sinistra come nella Cina della rivoluzione culturale. In breve la versione occidentale del libretto rosso di Mao ha fatto del perbenismo una galera, ovvero un’arte e uno strumento di potere anche a vantaggio di risaputi interessi finanziari. E ora ha la missione di dipingere l’Italia come un lager tra i più barbari, un arcipelago gulag dei più opprimenti, un universo concentrazionario che farebbe l’invidia del duce Mussolini, se non di Hitler e di baffone. Obiettivo: far cadere il governo.
Eppure, come stanno davvero le cose è sotto gli occhi di tutti. Della libertà di stampa ho proposto dati non smentibili. Dei magistrati posso solo dire altrettanto. Anzi. Più che ammanettate, le toghe danno le carte a 360 gradi. Da Mani Pulite in qua, cioè da ben trent’anni, la magistratura tiene in soggezione la politica e la società, fa e disfa, da terzo potere ha scalato le posizioni fino a diventare il primo. La pubblica accusa opera con la certezza dell’assoluta impunità e perfino errori clamorosi contribuiscono a far carriera ben retribuita.
Dominano nella magistratura le correnti e la politica, i giochi proibiti e i falli da espulsione. Solo che è tutto lecito e nessuno viene espulso, come ha limpidamente spiegato lo stesso Luca Palamara, l’ex presidente del sindacato delle toghe. Del loro strapotere danno prova tutti i giorni. I casi Toti o Renzi sono solo i più noti. Di Renzi un magistrato ha indagato l’intera famiglia, genitori, sorella, cognato, cugini, tutti sputtanati per poi essere prosciolti, con la complicità della stampa manettara e della sinistra giustizialista, proprio i due attori, guarda caso, protagonisti del film sull’Italia illiberale e tirannica in programma in questi giorni.
Grazie a due diversi report europei più o meno filtrati (all’origine o nei resoconti giornalistici) da una canea di giornalisti di estrema sinistra, il mondo ha ora avuto conferma ufficiale di ciò che Repubblica e Stampa pubblicavano dal primo giorno del governo Meloni: l’Italia, il paese dove tutti possono far tutto e tutti sognano di venire in vacanza, è in realtà una Cajenna resa invivibile da un esecutivo sovranista e fascista, che ha messo la museruola alla stampa e le manette alla magistratura.
Unici a lottare per la libertà, ovviamente, i fascisti rossi antifascisti di cui sopra, attori di un club europeo condotto per mano dalla finanza Agnelli Elkann, proprietaria di Repubblica, Stampa e gruppo Gedi in Italia, The Economist in Inghilterra, Pais in Spagna e forse anche altre testate altrove.
Stakeholders, portatori di interessi, li ha qualificati Meloni scocciata da un putiferio che danneggia l’Italia. Peraltro, dicendo niente di diverso da quanto da tempo è noto perfino ai sassi. Grandi azionisti di Fiat Stellantis, gli Agnelli Elkann sono difatti in conflitto col governo. Pretendono contributi per miliardi, oltre le centinaia se non migliaia già lucrati come Fiat, mentre Meloni vorrebbe capire bene a che titolo finanziare un gruppo espatriato in Olanda e Inghilterra, forse anche ormai più francese che italiano.
Ecco il nocciolo vero della questione. In questo portare gli interessi della proprietà consiste l’opera di Repubblica & Co. E siccome Repubblica tiene bordone alla sinistra, strumentale o meno che sia, ecco anche che il PD fa parte della combriccola pro dinastia torinese. Il resto, direbbe Marx, è sovrastruttura.
Tutto casca a fagiolo per attaccare la ducetta. La legge pensata per arginare la deriva scandalosa della complicità tra pubblico ministero e stampa è interpretata come attacco alla libertà. Quella sulla durata del giusto processo e sull’equilibrio tra accusa e difesa diventa un via libera alla malavita. La Rai da sempre in mano ai partiti di governo, sinistra inclusa, ora è Telemeloni e il sindacato unico, di estrema sinistra, sciopera contro il governo.
Da due anni è tutto così. Ed è la sinistra il dominus illiberale che perennemente e in ogni modo agita le acque, delusa di essere stata spedita all’opposizione, per quanto da un regolarissimo voto democratico.
Regina della cultura del piagnisteo, la sinistra si erge a difesa dell’etica (la sua) e dei diritti conculcati dal fascismo al potere, specie quello cosiddetto patriarcale che graverebbe in particolare sulle donne. Poi, però, succede che un energumeno dipendente della Rai (spero sia cacciato per giusta causa), senza alcun motivo offende la donna Meloni e la figlia durante la missione in Cina. Ma né la segretaria Schlein, né Repubblica hanno qualcosa da ridire. Tutto splendidamente ok.
E succede anche che l’ex vice del Presidente della Repubblica nel consiglio superiore della magistratura, il PD David Ermini, avvocato, trova lavoro a Genova alla testa del gruppo Spinelli, 700 dipendenti e altrettanti nell’indotto.
Nessun problema finché Spinelli non finisce nel tritacarne della cervellotica inchiesta che sbatte in galera il governatore di centrodestra Toti (a proposito di chi conduce le danze, magistratura o politica). A questo punto il PD chiede a Ermini di dimettersi. Perché? Perché lo dice il PD. Repubblica è d’accordo.
Di fronte a una tale intollerante pretesa, perfino offensiva nelle sue allusioni, Ermini ha scelto di lasciare il partito, non senza l’aperta solidarietà di alcuni autorevoli PD, a dimostrazione che nella sinistra forse c’è ancora vita. Velenosa irriducibile, Repubblica non si è però voluta negare l’ultimo morso: “Ermini ha preferito lo stipendio”, ha scritto. Il giornalismo della libertà è questo.
Lascia un commento