In questo periodo convulso, i riconoscimenti per l’economia italiana e per il ruolo dell’Italia nello scenario internazionale si susseguono. L’Economist ha scelto il nostro come Paese dell’anno, perché “per una volta un’ampia maggioranza di esponenti politici ha deciso di mettere da parte le divergenze per sostenere un programma di riforme”, oltre perché presenta un tasso di vaccinazioni tra i più alti d’Europa e un rilancio dell’economia più rapido di Germania e Francia. Ursula von der Leyen ha affermato che la nostra economia sta crescendo come non mai e che il Pil nazionale tornerà ai livelli pre-crisi entro la metà del 2022. Inoltre, sta per essere annunciato il raggiungimento degli obiettivi del 2021 fissati con l’Europa per il piano nazionale di riforme, sbloccando 21 miliardi circa per la prossima tranche di investimenti. La novità principale, però, è costituita da alcuni “punti di forza”, come li chiama Sabino Cassese, evidenziati da un eccezionale impegno collettivo e un’inedita assunzione di responsabilità che hanno unito governo, forze sociali e produttive, singoli cittadini, delineando una possibilità di ricostruzione non effimera per l’Italia. Non si tratta degli effetti di un semplice rimbalzo dei principali indicatori economici, dopo la lunga fase di chiusura forzata e inattività di molti settori industriali e dei servizi, ma di una manifestazione di fiducia nelle potenzialità del Paese e di uno scatto nella consapevolezza di milioni di persone che voglio contribuire direttamente alla ripresa nazionale. Tuttavia, questi risultati positivi possono essere messi in discussione repentinamente dall’indeterminatezza sempre più manifesta della politica e dai rischi derivanti dalle nuove varianti del Covid-19. Due problemi del tutto diversi, ma tra loro collegati e da prendere sul serio, come la persistenza dell’inflazione e l’arresto di alcune supply chains. Mentre per la pandemia i vaccini e le prime terapie farmacologiche alimentano la speranza di ulteriori progressi della scienza, in grado di contrastare definitivamente il fenomeno, per la politica occorre una profonda innovazione, che potrebbe sorgere dalla prosecuzione dell’esperienza di governo di Mario Draghi, per la sua portata di vera e propria svolta del sistema italiano. Nel frattempo che questi esiti possano dimostrarsi fondati o meno, una recentissima indagine dell’Istat pone in risalto l’evoluzione nell’ultimo quarto di secolo del coefficiente chiave per la modernizzazione, la crescita e la competitività dell’Italia. La produttività, infatti, è il frutto di elementi esterni all’impresa, come il contesto economico e istituzionale in cui opera, e di componenti interne, come le tecnologie, l’organizzazione e il capitale umano di cui dispone. Perciò, la misurazione di questo indicatore, effettuata per gli anni dal 1995 al 2020, è di notevole rilevanza per la comprensione dello stato dell’economia italiana e degli interventi necessari per un’innovazione di natura organica. In tutto questo periodo, l’incremento medio annuo della produttività del lavoro è stato dello 0,4%, nettamente più basso rispetto ai tassi del resto dell’Unione Europea (1,5%), di Germania (1,3%) e Francia (1,2%). Ancora inferiore è stato, in Italia, l’andamento del valore aggiunto, cresciuto in media dello 0,2% negli stessi anni. La produttività del capitale, che dipende dagli investimenti in nuove tecnologie e rivela il grado di efficienza nell’utilizzo di tale fattore, è diminuita mediamente, nel periodo considerato, dell’1,1%. La produttività totale dei fattori, che combina gli impieghi di lavoro e capitale nel processo di produzione, ha subito una riduzione dello 0,1% nel corso del medesimo arco di tempo. Il colpo inferto dalla pandemia si è riflesso anche su questo aspetto decisivo dell’economia, mostrando nell’ultimo anno della rilevazione, il 2020, da un lato, un aumento dell’1,3% della produttività del lavoro – dovuto, però, a un calo delle ore lavorate superiore alla contrazione del valore aggiunto –, dall’altro, una grave caduta della produttività del capitale dell’11,2% e una brusca discesa della produttività totale dei fattori pari al 2,7%. Se a questi dati dell’Istat si affiancano quelli contenuti in un’indagine dell’Ocse di luglio 2021, si ricava un quadro ancora più chiaro del caso italiano, con una polarizzazione tra le imprese più avanzate in termini di competenze e capacità manageriali e quelle di minori dimensioni, maggiormente diffuse nel Mezzogiorno, che soffrono di una struttura scarsamente efficiente. Da queste elaborazioni, dunque, emerge l’interesse strategico a orientare i progetti del PNRR verso investimenti fecondi e a un rivolgimento delle condizioni strutturali dell’economia, facendo della produttività (e dell’occupazione qualificata) la leva per un nuovo modello di sviluppo dell’Italia.
(con il consenso dell’autore questo articolo è ripreso dal quotidiano Il Mattino del 23/12/22)
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