“Prima o poi capirai, come ho fatto anch’io, che una cosa è conoscere il sentiero giusto, un’altra è imboccarlo.”
Parto da questa citazione dal film Matrix per dire che a mio parere il vero “bivio” davanti al quale si trova il campo “progressista e riformista”, nelle sue diverse articolazioni, non è in quale direzione andare ma se stare fermi o iniziare a camminare.
Mi spiego meglio con un esempio tratto dalla realtà locale.
Circa un mese fa ha suscitato un certo clamore la chiusura di un locale di Mestre, l’Officina del Gusto.
La crisi del coronavirus non ha fatto sconti nemmeno a quello che era diventato in questi anni, grazie alla generosità di chi lo gestiva e alla grande sala al piano superiore, un luogo di incontro, aggregazione e iniziativa di molte associazioni e realtà dell’impegno civico, sociale e politico veneziano.
Quasi quotidianamente nella grande sala dell’Officina si sono alternati convegni, presentazioni di libri, dibattiti, conferenze stampa, appuntamenti fondativi e assemblee di associazioni e movimenti.
Il locale ha chiuso i battenti proprio pochi giorni dopo le elezioni comunali di Venezia, e durante i quasi quattro mesi della campagna elettorale ha ospitato il comitato elettorale del candidato del centrosinistra Pier Paolo Baretta.
Per Baretta la chiusura ha rappresentato “un vero dolore, un colpo al cuore, il venir meno di un pezzo di quella famiglia allargata” che ha condiviso “entusiasmi, gioie e delusioni” della campagna elettorale. “Chiude un luogo simbolo di Mestre, non solo un ristorante, ma un centro di aggregazione che aveva dato spazio e ospitato iniziative e serate di quel mondo associativo di cui la nostra città ha tanto bisogno.”
A quella del Sottosegretario veneziano al MEF si sono aggiunte molte altre voci del mondo politico veneziano. Tutte molto colpite e addolorate per la perdita di uno spazio pubblico prezioso che consentiva agibilità e visibilità alle tante anime dell’impegno cittadino.
Ma a questo coro unanime di sgomento è seguito ben presto il silenzio. Già in alcune reazioni a caldo si poteva intuire il sentimento di rassegnazione che sarebbe prevalso. Qualcuno ha rivelato il proprio personale pessimismo sostenendo che ci troveremo ancora più soli davanti al computer. Qualcuno ha evocato la vecchia chimera dell’intervento pubblico risolutore, affermando che dovrebbe essere il Comune a fornire alle associazioni gli spazi. Qualcun altro ha utilizzato l’episodio per sfogarsi, così “a prescindere”, contro il sindaco.
Davanti ad un problema concreto, e cioè il venire meno di uno strumento riconosciuto unanimemente come utile all’agibilità politica e sociale, le reazioni sono state sostanzialmente tutte intrise di spirito rinunciatario.
Il dolore e il colpo al cuore non sono stati sufficienti, al momento, a suscitare un atteggiamento proattivo,
“Un vero peccato, ma noi non ci possiamo fare niente” sembra questa la sintesi dei pensieri sottostanti all’atteggiamento di passività dominante.
E qui sta il punto. L’incapacità di agire.
Nessuno ha pensato che questo evento negativo potrebbe trasformarsi in una sfida che chiama in causa i protagonisti politici del campo progressista nei diversi ruoli, locali e nazionali, che ricoprono? Se la chiusura dell’Officina mette in discussione l’utilizzo di spazi considerati preziosi per l’agibilità politica, perché non ci si sente coinvolti in una “chiamata” alla responsabilità, che si misuri con la capacità di immaginare e tentare soluzioni nuove? È credibile dichiararsi impegnati nel rilancio delle forze progressiste in città e non compiere poi atti concreti per costruire le condizioni affinché quel rilancio trovi risorse e mezzi per tenersi in vita?
Oppure, e sarebbe più grave per chi voglia mantenere o assumersi ruoli di leadership, si è consapevoli che la sfida rappresenta una “call to action” ma si ritiene che non sia affrontabile, sostenibile, che richieda troppe energie, che insomma non ci sia la possibilità di trovare una soluzione?
Perché, tutto sommato, nonostante la collezione di sconfitte si faccia sempre più imbarazzante, chi dice che non si possa continuare a sopravvivere nell’inazione quotidiana? Nella procrastinazione degli impegni, nella coazione a ripetere dei riti congressuali, nell’elaborazione di documenti programmatici tanto impegnativi nella loro stesura quanto trascurati nella loro diffusione e facilitazione comunicativa?
Figuriamoci se proprio ora leader, quadri, militanti delle forze progressiste si dovrebbero preoccupare, con tutto quello che hanno da fare (cosa?) di uno spazio pubblico che ospita iniziative.
Non siamo mica imprenditori (peccato, ce ne vogliono).
E soprattutto non siamo in campagna elettorale. Ci si penserà a tempo debito.
Solo che, a tempo debito, si ritornerà a vivere, politicamente, di espedienti. Di precarietà di mezzi e di sedi, di improvvisazione organizzativa, di mancanza di formazione per i volontari e di scarsa professionalità nella comunicazione.
Io penso invece che un movimento, un partito a qualsiasi livello, locale o nazionale, trova il suo senso compiuto solo se è in grado di tradurre e incarnare la propria Vision, i propri valori, attraverso le azioni, se è capace, con la propria azione di far “accadere il cambiamento” nel suo ambito di competenza.
Come ci insegna “un padre” del Community Organizing, Saul Alinsky, ispiratore anche di Obama, “le persone non chiederanno il cambiamento se pensano di non avere il potere di farlo”. Le persone quindi ti seguiranno solo se vedono che hai il potere di far cambiare le cose. A partire da quelle, apparentemente, più piccole.
E allora, quanto sarebbe attrattivo e mobilitante, quante energie ed entusiasmo si sprigionerebbero nel mettere insieme le idee e le forze per dare vita ad un luogo aperto che unisca all’offerta di spazi per iniziative e attività pubbliche, servizi di ristorazione, intrattenimento, cultura, formazione, che permettano anche di auto-sostenere finanziariamente l’iniziativa?
Che benefici, in termini di credibilità, fiducia, capacità di suscitare speranza e scopo condiviso, ne potrebbero derivare a coloro che si impegnassero nel portare a compimento un simile progetto?
Uno spazio a disposizione della comunità, fatto funzionare con regole che ne consentano una gestione efficiente anche sul lato finanziario. Un luogo che favorisca così la capacità di presenza, rappresentanza, azione “nel” sociale delle forze progressiste politiche e civiche, e allo stesso tempo sia testimonianza di pensiero creativo e non solo critico, esempio di intraprendenza, di capacità appunto di far accadere le cose, risorse queste sempre più scarse tra le forze variegate del progressismo locale.
Mutuando lo storico approccio GROW (acronimo di Goal, Reality, Options, Will) di Coaching, e “applicandolo” alla politica, si dovrebbe partire innanzitutto dalla definizione degli obiettivi, da costruire non in modo auto-limitante basandoci sulla realtà attuale, su quanto è stato fatto in passato, ma su ciò che si può fare in futuro.
E distinguere tra obiettivi-sogno (non mi dilungo, mettiamoci un mondo giusto e libero), obiettivi finali (vincere le elezioni e governare per fare il bene), che devono essere chiari ma che non sono nella nostra sola disponibilità di realizzazione, e obiettivi di performance (nel nostro caso appunto creare un luogo di agibilità per partiti, movimenti, associazioni) e di processo (sviluppare tutte le azioni necessarie a trovare le risorse e alla sua gestione), che sono invece in larga misura nel nostro controllo, dipendono unicamente dalla nostra volontà di metterli in atto.
Sapendo che in politica vale, come nel Coaching, la regola che un obiettivo “finale”, di scopo, per essere credibile, va sempre supportato da obiettivi di performance e di processo, quelli che raggiungi solo se mutano davvero i comportamenti e ci si misura con i risultati.
Sento già l’obiezione. Sì, bello quello che dici, ma dove troviamo le risorse?
(Questo articolo è pubblicato dalla rivista on line Luminosi giorni. Chi vuole proseguire la lettura può andare al sito: www.luminosigiorni.it
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