Draghi è stato allontanato dalla guida del paese. E’ difficile farsene una ragione. Ma non perché siamo alla ricerca spasmodica dell’uomo della provvidenza. Chi come noi si richiama ai principi democratici e liberali, sia in politica che in economia, rifugge dall’idea che un uomo da solo possa guidare un paese. Ma piuttosto perché, forse in una delle poche esperienze degli ultimi caotici trent’anni della politica italiana, il paese aveva trovato una felice sintesi fra immagine e sostanza nella figura del Presidente del Consiglio Draghi.
A livello di immagine Draghi ha funzionato e non poco. E’ stato bello vederlo nelle assise internazionali apprezzato unanimemente e considerato al di là della reale importanza del paese rappresentato. L’Italia non veniva rappresentata al di sotto del proprio peso storico, economico e politico ma certamente al di sopra. Con un effetto rilevante in termini di credibilità politica e quindi di peso economico.
A livello di sostanza Draghi, nei limiti delle possibilità date all’interno di un quadro parlamentare non proprio entusiasmante e anche di alcuni evidenti limiti di esperienza politica e amministrativa, si è fatto apprezzare per alcune significative novità. Una distanza abissale dal linguaggio e dall’approccio populista, la capacità razionale di tenere assieme compatibilità politiche e finanziarie con la libertà di scelte di merito nel governo del paese e l’attenzione quasi spasmodica al ruolo dell’Italia nel quadro europeo e atlantico e non contro, o alternativo, a questo.
Draghi ci mancherà. Mancherà al paese. E mancherà a quell’area politica liberale, riformista e meritocratica che aveva sperato, e continua ancora a sperare, ad una uscita dalla crisi dell’Italia attraverso riforme e innovazioni di sistema e non attraverso l’allargamento assistenziale del ruolo dello stato nell’economia e nella società. Riforme di sistema che come abbiamo visto nella breve esperienza del Governo Draghi e nella breve gestione del binomio PNRR e Riforme non sono un passaggio formale e semplice dal “peggio” al “meglio” ma sono il risultato, non sempre scontato e non unanimemente sostenuto da parti importanti di popolazione, di una vera e propria battaglia politica. Il Riformismo non è una forma di moderatismo. Ma è la vera rivoluzione sociale degli anni 2000.
Questo mondo, il mondo che si è riconosciuto in Draghi e nelle scelte strategiche del suo Governo, è ampio e articolato. E’ inutile far riferimento alle sigle, ai partiti, alle fondazioni e ai movimenti che in alterne vicende e con alterne fortune si sono presentate con la patente di riformismo e di cultura liberale, socialista e democratica. I nomi di leader e portavoce sono tanti: da Calenda a Renzi, da Bonino a Toti, da Sala a Cottarelli e via dicendo fino ad arrivare a personaggi legati a Partiti schierati ancora secondo l’asse tradizionale destra/sinistra. La Carfagna, la Gelmini e Brunetta in Forza Italia, almeno fino ad oggi, Giorgetti nella Lega e Marcucci, Guerini e Nannicini nel PD solo per ricordare alcuni nomi. E’ un mondo importante che ha dietro aree sociali di rilievo: imprenditori, professionisti, tecnici, uomini di scienza e di cultura. Oltre a significative fasce di opinione pubblica schierata su proposte civiche e di innovazione economica e sociale.
Si tratta di un’area che rischia di venire azzerata in termini politici dalla riproposizione di una lettura della politica italiana lungo l’asse tradizionale destra/sinistra. Intendiamoci, non che questo asse abbia cessato di avere un qualche riferimento sociale e culturale. Ma l’innovazione di cui ha bisogno il paese passa oggi da un asse diverso. E i tre riferimenti sono, riprendendo anche l’esperienza del Governo Draghi, la collocazione internazionale dell’Italia, il rapporto in economia e nel sociale fra Stato e Mercato ed infine, in politica, il rapporto fra democrazia delle istituzioni e partecipazione popolare.
Sulla collocazione internazionale vale l’impegno di Draghi di vedere l’Italia come un tassello rilevante, pur in un mondo decisamente multipolare, dell’occidente atlantico ed europeo. Su questa collocazione non ci possono essere dubbi né reticenze. Il Mondo diventerà sempre più cinese, russo, mediorentale, africano e altro ancora. Ma il ruolo dell’Europa e la sua collocazione occidentale e atlantica resteranno ancora per molto tempo un baluardo per la democrazia, per la difesa dei diritti e per lo sviluppo di relazioni di pace nel mondo.
Su rapporto fra Stato e mercato nell’economia e nella società molto è stato scritto e detto negli ultimi trent’anni dopo la caduta del comunismo. Un dato è certo: lo sviluppo della democrazia in profondità richiede la libertà degli individui. E la libertà degli individui presuppone la responsabilità delle scelte degli individui e dei gruppi. Il mercato è lo strumento più adatto a sviluppare libertà e responsabilità nell’economia e nel sociale. Deve essere regolato, deve essere accompagnato da uno Stato che ne corregge fallimenti e debolezze ma non deve essere sostituito da uno Stato onnipresente e fortemente assistenziale. L’occidente deve la sua grandezza alla libertà e all’individualismo. In un quadro di socialità avanzata e in un contesto di rafforzamento di beni pubblici come l’ecologia, la sanità, la scuola, la cultura e la cultura civica. Bisogna che si rafforzino i principi di libertà, di imprenditorialità e di creatività della popolazione italiana ed europea più in generale. Per affrontare con un nuovo dinamismo le sfide dei prossimi decenni.
La democrazia delle Istituzioni va rafforzata. Basta con una continua battaglia fra politica, intesa come area di depravazione, e società civile, come area di rancore verso le istituzioni. E con la previsione palingenetica che portare la società civile dentro la politica e le istituzioni sia l’unica strada per ricucire lo “strappo” fra i due mondi. L’ingegnere che entra in politica e diventa parlamentare diventa immediatamente un politico e cessa di esse società civile. Non è questa la strada della ricucitura. La strada sta in vere e proprie Riforme istituzionali, nella definizione precisa fra ruolo della democrazia rappresentativa e della democrazia diretta, magari con un ruolo più avanzato di pratiche referendarie e partecipative della popolazione, e nella ripresa di autorevolezza e capacità decisionale, anche tecnica, delle Istituzioni.
Non è facile difendere un’area autonoma, liberale, democratica e riformista, dal e nel richiamo della foresta delle prossime elezioni. Occorre in primo luogo non perdere mai la consapevolezza che questa è un’area culturale. E che questa va alimentata, rafforzata e fatta emergere a prescindere dalla collocazione partitica dei singoli soggetti. Occorre che qualcuno (forse le Fondazioni liberaldemocratiche?) pensi a vivificarla e farla crescere. Facendo discutere assieme i liberali di Fratelli di Italia, della Lega e del PD con tutto il mondo che si muove e si articola al centro dello scacchiere politico italiano.
E poi a livello politico occorre che questo mondo liberale sia visibile in alleanze (questo richiede l’attuale sistema elettorale) certamente ampie e variegate ma che tendano a tenere fuori dal perimetro quanto più possibile le forze populiste, antidemocratiche e sovraniste del sistema politico italiano.
Quindi autonomia fra destra e sinistra come elemento culturale e autonomia dentro le alleanze come progetto politico. E’ un compito non facile. Ma non credo ci siano altre possibilità per tenere viva nel dibattito politico e nella politica delle istituzioni la cultura liberale, democratica e riformista.
Lascia un commento