Ha risposto ad una missione tra le principali del Gabinetto Vieusseux il convegno organizzato, con il Comune, su un tema quanto mai attuale: Una patria senza confini? I termini identità, patria e nazione sono usati con una molteplicità di accezioni che val la pena richiamare. Si tratta di ricostruire in una fase di profonda crisi etica e di intolleranti contrapposizioni un lessico condiviso, senza il quale il confronto degenera in ciechi scontri e in vane polemiche teatrali. La coscienza di appartenere a una patria è – ha detto in apertura il presidente Riccardo Nencini – una «creazione continua». Inaccettabile suona la tesi di chi ha sostenuto che con il crollo del regime fascista e la guerra civile che l’aveva contrassegnato moriva la patria stessa. In effetti tramontava una versione della patria per come era stata cinicamente propagandata e usata da un’ideologia totalitaria, aggressiva e imperialista. Piero Calamandrei annotò nel suo diario il primo agosto 1943: «Veramente la sensazione che si è provata in questi giorni si può riassumere senza retorica, in questa frase: si è ritrovata la patria: la patria come senso di cordialità e di comprensione umana esistente tra nati nello stesso paese». Erano parole fin troppo fiduciose, ma coglievano le speranze che furono alla base della democrazia repubblicana, parlamentare e pluralista sancita con un alto compromesso dalla Costituzione. Tra la qualifica di partigiano e quella di patriota circolò del resto uno spontaneo interscambio. Le lacerazioni successive e il declino dello slancio unitario della Resistenza non offuscarono un concetto fondato sulla consapevolezza di dover affrontare un comune destino. Così non fu. La parola nelle varie modulazioni dei suoi significati definì per la grande maggioranza del popolo un patrimonio spirituale da non disperdere. «La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino» enuncia l’art. 52 della Carta costituzionale. L’Italia è fatta di una patria dai mille volti, anche di piccole patrie che ne compongono la diversificata unità. A questa inflessione, che esprime esperienze dirette, non è affatto da opporre la categoria politica di Nazione, che ha avuto anch’essa le sue traversie e una ricezione storica complessa. Non è una scoperta del ministro Sangiuliano che il termine nazione sia stato e sia impiegato da «importanti esponenti della sinistra». Si può, anzi, serenamente affermare che una nazione organizzata in Stato ha «come componente primaria – lo sottolineò Napolitano nel discorso del 17 marzo 2011 – il senso di patria». Ma per affermare una presenza attiva della nazione nei convulsi e bellicosi processi di globalizzazione è decisivo espungere le cadenze nazionalistiche e gli illusori sovranismi che la feriscono a morte. La prospettiva per cui battersi è una Federazione europea di Stati nazionali tenuti insieme da finalità comuni: formula felice di Jacques Delors. Quanto all’identità, guai a tirarla fuori con protervia etnica. Anch’essa deve contenere una pluralità di apporti che s’incrocino o si fondano, e dialoghino in contesti che non pretendano di essere formazioni omogenee per religione, memorie e eredità. Le culture devono rifiutare di rinchiudersi in una presunta loro “essenza”, ma essere rivolte verso altre culture, altre lingue, altri mondi.
(questo articolo, già pubblicato su “Corriere Fiorentino”, 12 dicembre 2023, è ripreso con il con il consenso dell’autore)
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